Thursday, July 31, 2008

Curve



Noi ci vediamo tutte le mattine alle sei e trenta abbastanza puntuali anche quando è inverno e alle sei e trenta abbastanza puntuali è ancora buio noi ci vediamo con una specie di piccola, assonnata urgenza che ci muove i piedi nelle scarpe ci accolla il cappotto se fa freddo ci arrotola le maniche della camicia se fa caldo, ci sbadiglia il caffè sbuffandolo sul palato, ci accende -a quelli di noi che fumano- il primo raschio in gola coi polmoni che si attorcigliano all'umido del giorno che nasce e alla nicotina che sfrigola. Noi ci vediamo tutte le mattine chediomandainterra alle sei e trenta abbastanza puntuali -anche quando è inverno- ci vediamo al parco quello con le palme che ci fa una palma accanto a degli alberi di pèsche e ai pinidiroma che ci fa? -mi chiedo, inutilmente. Noi ci vediamo alle sei e trenta minuto più, minuto meno perché tutti noi tutte le mattine chediomandainterra portiamo i Pensieri a fare la passeggiata.
Non so chi ha iniziato: ci sarà pur stato un precursore, qualcuno che ha avuto l'idea. La nascita della consuetudine invece l'ho vissuta in buona parte e ne conosco lo stratificarsi, con quel misto di cameratismo compiacente e oculato distacco che presiede a tutte le forme di associazione spontanea. Non ci sono discriminazioni, questo posso dirlo con certezza. Abbiamo età diverse, differente estrazione sociale e neanche l'aspetto fisico conta più di tanto. Tutti noi abbiamo solo i nostri Pensieri da portare a passeggio; però non essendo i Pensieri visibili allo stesso modo dei cani di quelli che si riuniscono nel parco adiacente al nostro, non c'è competizione. Non c'è vanto. Tantomeno i convenevoli cinofili sui pregi di una razza o un'altra. C'è un silenzio un po' strano, questo sì. Ma è un silenzio a cui ci si abitua in fretta; dal quale -anzi- si imparano i rituali e le accortezze reciproche. Arriviamo quasi tutti con le mani in tasca. Chi sgambando leggero, chi con le spalle curve dei giorni più assillati. Ci scrutiamo, un cenno di saluto, le prime parole.
"Oggi non voleva uscire. Ho faticato per convincerlo a muoversi... ma dovevo portarlo fuori"
"Ha fatto benissimo: quando rimangono in casa la mattina, poi ti tormentano tutto il giorno. E non è la stessa cosa, scarrozzarli il pomeriggio. La sera poi, non ne parliamo. Il tramonto è una staffilata!"
"Quanto è vero... Quanto è vero!..." -questo che interviene è quello che chiamo il Dentista. Lo chiamo così nonostante non conosca la sua professione. Lui ha due Pensieri. Li porta fuori sempre insieme. Tirano i loro guinzagli immaginari con molta forza. Difficile pernsarlo eretto senza l'insistenza delle sue due ansie.
Mentre il Dentista dice la sua, arriva il Matematico. Un tipetto tutto arrovellato che pesca fogli stropicciati dalle tasche del parka come un prestigiatore le carte truccate. Scrive ogni cosa. Tiene uno storico dettagliatissimo del suo Pensiero. Ne misura continuamente le variazioni imprevedibili di peso e altezza. Appunta cambiamenti di forma e entità. Elenca, curvo sulla matita che tiene in punta, ogni deduzione possibile. Credo sia determinato ad eliminare il suo Pensiero, che comunque non si direbbe proprio in gran salute. Il Matematico lo tormenta di domande, quello strattona muto e -progressivamente- si indebolisce. Ne abbiamo visti non pochi sparire così. Qualcuno è tornato. Col medesimo Pensiero che camminava avanti a testa alta, fiero di aver resistito a qualcunque assalto: orgoglioso del suo essere praticamente assurto al rango di ossessione. Altri invece hanno ricominciato a farsi vedere con un Pensiero diverso. Lo sguardo imbarazzato di quando si presenta un nuovo partner agli amici di una vita. Un fruscio di nostalgia negli occhi.
Siamo gente strana, noi. Ci affezioniamo fiaccati dalla consuetudine. Siamo molto più soli senza le nostre riflessioni, ottuse come scariche in un circuito chiuso.
I nostri Pensieri evitano di incrociare lo sguardo tra di loro. Si ignorano, razzolano pigri, mantendendo una certa distanza l'uno dall'altro. Sanno che sono appesi a quelle nostre riflessioni. Sanno che a tenerli in vita è la loro unicità. Mischiandosi, si imporrebbe il confronto e -invece- ognuno di noi deve essere convinto di gestire il fardello peggiore. O almeno il più pesante: il più presente. Il Suo. E' una supremazia triste, guadagnata evitando ogni comparazione e incancrenita dal nostro piccolo rituale quotidiano.
Arriva il signor Campo. Il signor Campo è un uomo in là con gli anni, proprietario di un Pensiero schivo e emaciato che gli ronza sempre attorno alle caviglie. Il signor Campo stesso è cerimonioso e mite. Oggi però sgambetta emozionato. E' solo.
"L'ho perso! L'ho perduto! Mi sono voltato per qualche secondo -scusate, buongiorno a tutti- e poi non c'era più! E' scappato!"
"Ma si figuri! -è il Matematico che lo rimbrotta- Piuttosto, se lo sarà dimenticato!"
A quella frase, tutti stornano lo sguardo altrove. Il Matematico ha commesso un grave errore. I Pensieri, lo sanno tutti, non si dimenticano. Sarebbe un'eventualità impossibile da sostenere. Una disgrazia che annullerebbe anche il proprietario. Un Pensiero non si dimentica. Si allontana, si giustifica, si maschera, si corregge, si alimenta, si sviscera. E' consentito quasi ogni tipo di interazione. Dimenticarsene è fuori discussione.
Il signor Campo increspa la bocca. Qualcuno si avvicina tentando di consolarlo. Il Matematico è imbarazzatissimo e il suo Pensiero lo tira con più rabbia del solito, nonostante sia poco più che pelle e ossa. Li guardo tutti, da qualche metro di distanza. Li guardo tutti e poi porto lo sguardo al mio Pensiero che mi ricambia uggiolando stanco. "Dovresti proprio andartene", penso. "Dovrei decidermi a lasciarti libero e forse -forse- non torneresti". "Non so più nemmeno se arriveresti a mancarmi, sai? Non lo so più perché in fondo sei un'abitudine come tante che si prendono, pure se io piuttosto t'ho contratto come fossi stato una malattia. I sintomi c'erano tutti eppure non ti riconosco più. Né riconosco più in te parti di quello che sono stato". Mi chino e un cane, un cane proveniente dal parco accanto s'infila oltre la rete divisoria corre con la lingua che sbava corre come avesse visto la chimera della sua vita o fosse inseguito dal più gigante accalappiacani dell'universo. Corre con quell'andatura un po' obliqua che hanno i cani quando corrono molto veloce: sembrano motociclette, sembrano frecce storte, sembrano curvi come è curva la terra. Corre e arriva in mezzo al nostro gruppetto che ancora è gelato dalla frase del Matematico e tutti raspano con la punta dei piedi in terra e non sanno troppo bene come reagire dove andare dove guardare io mi chino ancora verso il mio Pensiero "Va' -gli dico- va' e non tornare. Va' e trasformati in qualcos'altro, qualcosa che non mi inchiodi mai più alle sei e trenta puntuali di ogni mattina chediomandainterra, trasformati o sparisci ma liberiamoci entrambi liberi sant'iddio, liberi di costringerci a qualcos'altro a qualcun'altro ai cani che corrono curvi come la terra curva dei Pensieri curvi di troppa, troppa gente.

Saturday, May 03, 2008

Bello Per Nessuno



Quando uno ha la mia età s'accomoda le cose. E' per via che diventa più lento, che c'ha i dolorini, che tutto gli corre veloce attorno come certi incubi in cui stai davanti alla giostra e ti pare di non riuscire a salirci mai. E' pure per via che noi vecchi ci dimentichiamo un sacco di cose e ce ne ricordiamo improvvisamente altre e allora è un guaio perché si mischia tutto e non ti raccapezzi più e quello che rimane, ti tocca accomodarlo: dargli una forma che non tutti capiscono, ma con cui tu ti orienti. Pure se sembra la cartina di qualche paese dimenticato daddio. Ci pensavo 'stamane da Gigi, che è il barbiere, mentre aspettavo il turno mio e leggevo il giornale facendo scorrere il dito sul cuoio rabberciato del divano. Gigi c'ha la mia età e certe mani che se ti fissi a guardarle, mentre tiene le forbici tra le dita, pàrono un animale strano volatile che sparecchia ciuffi di capelli. In fila in attesa ci stava Gianni. Piero era al taglio. Sulla solita sedia accanto alla cassa c'era Frequenza che lo chiamiamo così per via che sta sempre accanto alla radio nel negozio di Gigi e lui non c'ha cuore di mandarlo via e quello -Frequenza- non disturba, dice ogni tanto una frase che non si capisce e ascolta la radio con lo sguardo nell'orecchio. Sul serio. Se gli passi una mano davanti agli occhi non se ne accorge quasi, ma se t'avvicini all'orecchio si vòlta. Insomma pensavo a 'sto fatto che alla mia età uno si accomoda le cose perché Gianni aveva appena detto una frase che a me mi sembrava stupida. C'è da dire che Gianni è un fregnacciaro di prima categoria, ma infondo è un buono. Fa quasi un po' pena, come mi dice sempre Rita, quella del forno, quando lui gli scrive le poesie d'amore sui cinque euro. Rita c'ha ventidue anni è bella come il sole e noi siamo vecchi, Gia'. Vieni via: non te fa' ride' dietro.

Mi sono sempre promesso di raccontare come sono andate le cose. Ho continuato per anni a tenere una specie di memoriale che sbiadiva il rancore e testimoniava lo svolgimento dei fatti. Niente di scritto, solo la stesura ragionata -pensata- di quanto mi era accaduto. Mi infastidiva che qualcuno, privato del benestare del perdono, andasse in giro a inventare episodi col pretesto autoindulgente di limitarsi alla sua 'versione dei fatti'. Me lo sono promesso perché non è giusto approfittare del silenzio altrui, almeno quanto è scorretto prendere le parole degli altri al balzo e trasformarle nel proprio salvacondotto. Ho sempre pensato che un giorno avrei interrotto una conversazione qualunque e avrei iniziato dicendo: "Ora vi racconto come stanno le cose". Così, per fare chiarezza: ché i torti e i veleni non muoiono con la verità, ma dirli è già qualcosa. E invece mi ritrovo qui, dopo gli anni che son stati, senza più la voglia: senza più la forza 'manco di sorridere amaro. Non c'è perdono e non c'è indulgenza: c'è che non importa più niente a nessuno di com'è andata e anzi addirittura tutti inguattano le conseguenze nel fondo delle tasche e vanno avanti e indietro così, senza mai più stringere la presa sulle cose, per la paura di sentirsele scivolare dalle mani e poi giù ancora. Tutta questa inutile paura. E questo -inutile- mio coraggio fuori tempo massimo.

Insomma Gianni aveva messo su l'aria da filosofo e aveva detto, in buona sostanza, che l'unico insegnamento, l'unica cosa che a una certa età finalmente capisci, è che niente ha senso. E niente mai ce l'ha avuto. E ti devi arrendere e goderti cose minuscole, sempre più piccole, man mano che l'età aumenta. Che i ricordi sono una scusa e non un sollievo. Che rimane ben poco. Alla fine rimane poco e anche stare lì, a farsi tagliare i capelli da Gigi era una cosa inutile: un vezzo ridicolo davanti al senso delle cose che non c'è.

Il giorno che t'ho sposata mi cercavo nello specchio e tremavo al pensiero di trasformarmi in una fotografia coi graffi e le ditate delle domeniche pomeriggio. Tremavo tanto che mio fratello m'ha portato un bicchiere e m'ha detto "Bevi" e io ho buttato giù tutto d'un fiato, mi sono seduto su una sedia, attento a non rovinare la piega dell'abito e ho continuato a tremare perché capivo che si trattava di conservare la tua bellezza: proteggerla dal tempo e dalla mia stupidità. Noi maschi siamo scemi sul serio ed è palese nei momenti peggiori: facciamo un gran casino perché i conti non ci tornano mai e ci sistemiamo nel segno più delle addizioni e ci aggrappiamo al meno delle sottrazioni e ripetiamo i calcoli cento volte. Cancelliamo gli errori finché non restano i buchi nei fogli e altri nella testa. Ma non è questo che voglio dirti. Quello che voglio dirti è che il giorno che t'ho sposata io tremavo chiedendomi se sarei stato capace di conservare la tua bellezza. Ammirarla e rispettarla finché morte non ci avrebbe separato o perlomeno tutto il diavolo di tempo in cui saremmo stati capaci di rintracciarci con uno sguardo da una parte all'altra di una stanza. Capaci di fare quel numero da coppia, quello in cui mezzo secondo basta per venire a capo delle storture del mondo, per trovare una porta, un'uscita e respirare all'aria aperta: "Ci sei?". "Ci sono". E poi è stato ancora più strano scoprire che ce l'avevo fatta. Fino alla fine. Già. 'Finché morte non vi separi': vaffanculo alla bellezza che non posso più conservare. Che non posso più proteggere.

E io a quel punto non c'ho visto più e mi sono alzato in piedi e mi sentivo stanco, stanchissimo come prima delll'ultimo metro per un traguardo che neanche sai di dover raggiungere. Mi sono alzato in piedi e gli ho detto: Gianni queste sono stupidaggini. So' fregnacce. E sono stupidaggini che c'hanno un senso solo nella tua vita spaventata con i cani dietro a rincorrerla. Sono stupidaggini che puzzano di paura e la paura produce il puzzo più insopportabile che esista e tu -intanto- sei libero di fare come vuoi. Sei libero di scappare invece di trovare il coraggio per fermarti: il coraggio di scoprire che nessuno ti insegue e che il Tempo a cui credi di farla franca, invece è lì che ti aspetta altrove. Ed è per questo, Gianni, che dici fregnacce. Per lo stesso motivo per cui io invece stiro la camicia ogni mattina e mi pettino e mi cerco allo specchio e -sì- mi rendo presentabile. Perché cerco di avere ancora cura per me stesso come se 'morte non mi avesse separato' proprio da un bel nulla. Anche se lo ha fatto. A forza, per giunta. Quella stronza. Cerco di aver cura per il tempo e il senso che mi aspettano altrove e non perché qualcuno si avvicini o mi sorrida o pensi: "Ma che bel signore!". Vecchio, Gianni. Un vecchio signore: ecco cosa sono. Un vecchio signore che si fa bello per nessuno.

Saturday, March 29, 2008

Bonus Track

so che stai per
andare a dormire
perché
fuori la luce si spegne
e l'ultimo
pensiero
riposto con cura sonnolenta
sul comodino
non arriverà a domani
non arriverò a domani
lo so
che stai per
andare a dormire
perché
io sono
in contatto telepatico
col tuo orsacchiotto più
malandato
quello che torturavi
con matite e
un'euforia a cui
l'età ti impediva
di dare un nome
che invece
io so
che stai per
andare a dormire
perché
sono lì
lo so
che a questo punto
posso
rubarti l'istante preciso
in cui il corpo
cede a quello che
sembra stanchezza
ed è piuttosto svuotarsi
le tasche delle aspettative
del giorno
domani domani domani
lo so
che ora non dormi
lo so
e il tuo orsacchiotto più
malandato
sorride.




* E' stata scritta qualche anno fa e pubblicata altrove. Il tempo cambia quello che c'è attorno.
Le parole e i gesti fanno la differenza.

Wednesday, March 26, 2008

A me (n)



Provo da qui, ora che sono distante. Ci ho messo chilometri e anni, pazienza e inciampi. Perdoni svogliati e condanne estenuanti. Provo da qui, proprio oggi che il sole sfrigola come fogli di alluminio accartocciati e mi sento come quando ti si impiglia il maglione in una sporgenza: con il fastidio di essere strattonato da qualcosa che non consideri. Riportato indietro a forza -pochi istanti prima- mentre ti immagini già altrove. A quanto pare ci sono conti invisibili eppure aperti. Sbrìgati a chiuderli e passa a ciò che richiede la tua attenzione quotidiana -mi dico. Così decido di provare a sistemare le cose da qui, ora che non mi perdo più -affogando- nei bicchieri d'acqua, ma neppure ci sguazzo fingendo -come tanti- che siano laghi. Cerco un punto più alto, mi arrampico e cambio prospettiva: col faticoso, urgente pragmatismo che mi hai involontariamente insegnato. La prima cosa che voglio dirti è che io non cerco scuse. Per inciso, non sono più capace di inventarne e non mi piace insultare quel poco di fantasia che ancora coltivo. Quindi inizio ammettendo le mie colpe. La mia scomparsa, su tutte. So che mi hai cercato e so che non sono bravo a coprire le tracce. Oltretutto, difficilmente cammino a ritroso e questo elimina ogni speranza di depistaggio. Posso spiegarti, però. Ora. Spiegarti la mia insofferenza ai contorni ostinati, a quell'urtante abitudine che sviluppa chi riduce, col pretesto di semplificare. Sono diventato altro da quello che vedevi e non avrei sopportato di sembrarti la stessa persona: non avresti tollerato di scoprirti inadeguato a quello che mi avviavo ad essere. Non raccontarti balle e non raccontarne a me, ora. Ti smaschero da sempre. Non avresti tollerato neanche dei chiarimenti. Credimi, una volta per tutte, credi a me e a questa distanza che ti salvaguarda. Nessuno desidera chiarimenti che conosce. Sono solo pretesti per avere davanti, almeno per un istante ancora, l'oggetto della sua rabbia. Sono più interessanti e utili i percorsi che ci ritroviamo a calpestare da soli, quando realizziamo di avere le risposte sottomano. Sono più utili i calci ai sassi delle strade in cui sudiamo i nostri rimpianti come influenze da svernare: come sogni da ridimensionare. Io non ti piacevo più e non piacevo a me e questo -questo- è davvero insopportabile: non l'assenza o il gioco del rammarico in fondo alle tasche. E' così che realizziamo di poter perdere e conquistare allo stesso tempo qualcosa.
La seconda strada è il dolore. Qui il discorso si fa complicato perché c'è di mezzo la necessità di correre ai ripari. Ci abituano a cure allarmate mentre, il più delle volte, le ferite smettono di fiottare da sé e poi rimarginano. La sospensione che riusciamo a interporre va oltre la masochista idea di sopportazione. E' una conquista che ci infonde il coraggio di scoprire che siamo strumenti delicati e capaci insieme. Che in qualche modo più misterioso del nostro -legittimo- spavento, rimediamo ai colpi senza troppo bisogno di compassione o lacrime. E' dura accettarlo. E' dura scoprirsi allenati e più robusti di quanto si crede. La soglia di tolleranza e lo spazio della guarigione sono tempo che passa e forze che sbiadiscono. Spalle che si incurvano, chiavistelli a porte e finestre. Tu hai provato a togliere le bende e io te l'ho impedito. La ragione è semplice ed è il senso stesso di questa mia seconda strada. C'è qualcosa di peggio del dolore ed è l'identificazione con ciò che si patisce. L'ansia di diventare quel male e di assumerne i connotati. Il rigetto per l'eventualità di segni visibili e di caratterizzazioni nascoste, ma permanenti. Passare attraverso il dolore e i suoi postumi mollicci da cauterizzazione: questo volevo. Questo è quanto mi stavi impedendo di fare e io -io- non so stare al gioco di chi procede per tentativi più terrorizzati dei miei, almeno quanto non so convivere con la paralisi di un'incapacità interdetta. Dove vivo ora, arriva ogni tanto l'eco di tutto questo e io sorrido al riflesso svelto nella finestra che apro perché il ricordo di quel dolore passato giri: quel tanto che basta a fargli perdere la voglia di rimanere incollato al mio tempo.
La terza e ultima strada che mi ha allontanato e spinto fino al luogo da cui ora ti scrivo è la felicità. Pare impossibile che sia proprio io a usare queste parole eppure c'è una felicità che non prevede condivisione. Mi ricordo che era quanto speravi per me, allora. Felice, finalmente. "Ché tutto questo finisca e finisca in fretta e che tu rida di nuovo e di nuovo smetta di gestire i margini delle tue stramaledette difficoltà" -così dicevi, allora. Io speravo e intanto schivavo sconfitte più grandi, assistevo attonito a possibilità falcidiate da una fatica grande come tutti i posti che continuavo a promettere a me stesso. Giurando che non avrei ceduto: garantendomi versioni meno sfarzose che mantenessero almeno la dignità. La terza e ultima strada è iniziata quasi per caso e non potevo spartirne le fasi con nessuno. L'avresti scambiata per una resa o -figurarsi- per un tradimento. "Ora che non hai più bisogno di me", avresti detto. La parola 'bisogno' entra nel mio vocabolario a malapena sotto forma di sinonimo, dovresti saperlo. Piuttosto, sulla terza strada mi hanno investito come si vede in certi film in cui un impatto dilata persino l'avvertimento. Io non volevo essere salvato. Tu ci hai provato fin troppo. Non ti accuso: abbiamo sempre reagito all'imprevedibilità con una smania da missione suicida. Avresti mai detto che la felicità proveniva da quell'ennesimo punto privo del nostro controllo? Non credo di sbagliare se rispondo per te. Non l'avresti mai detto, no. Mi concedo tanta supponenza perché sono il primo ad ammettere che non lo avrei mai neppure pensato.
Ora sono qui e sai dove trovarmi. So che sei arrabbiato e so che questi chilometri ti costeranno tanta fatica quanta ne ho dovuta chiedere io stesso alle mie spalle. Magari, una volta che i muscoli avranno smesso di farti male e poi di essere indolenziti, ti verrà voglia di venirmi a trovare. Puoi farlo. Non abbiamo parole da nasconderci e abbiamo poco da rimettere insieme. Passa, quando vuoi, anche senza avvertire.

Wednesday, February 27, 2008

Salvezza




E questo? "Perché non è mio, questo?". Sbatte sbatte il dito sulla mappa aperta, spianata voracemente. Le mappe hanno questo fondamentale problema: finiscono. I territori no. I territori sono uno scherzo dello sguardo che certi confini immaginano di poter restringere a campo visivo. E questo? "Perché non è mio, questo?". C'è un limite. Un limite in superficie che ci si sforza di aggirare scendendo in profondità. Barattando il chiaro dell'evidenza con lo scuro dei fantasmi ficcati in fondo ai cassetti. Negli interstizi delle pagine di libri che non apriremo mai più. Avanza e avanza, procede attorno erodendo la terra sottostante. Drenando la base dei passi altrui (i tunnel a riva con la sabbia che scivola in risacca). Non c'è terra gentile, terra dove il riposo ti sarà lieve. C'è terra che scalci all'indirizzo di chi -ti- vòlta le spalle verso qualcosa di meno importante. Qualcosa che, presto o tardi, prenderà fuoco e allora speri, con tutte le tue forze speri, che quelle spalle imparino a mangiare fumodenso e neropesto perché -sia chiaro, una volta e per sempre- sul tavolo non gli rimarrà altro che una manciata di parole e una superstizione dura a morire, nonostante il tempo. Si chiama Rivelazione e a quel punto non hai scelta: la propaghi o la inghiotti. Che tu taccia agli altri il suono della tua voce sgraziata o sbraiti di tradimenti, complotti e congiure con un sorriso aguzzo affamato di salvezza, niente verrà a salvarti. C'è un punto che non è sulle mappe e che il territorio nasconde -e questo? "Perché non è mio, questo?". Ci abitano le cose che ti sfuggiranno e che tu fingerai di non rincorrere e da cui ti affannerai a fuggire. E' una corsa illusoria: una corsa in tondo. Anche se gli dai la forma di un tubo del diametro di venti centimetri, interrato quanto basta a nasconderlo all'evidenza di una strada che non sai e che intravedi, segnalata da persone come puntelli di cui calcoli l'orientamento. La stessa strada che divori in un pranzo in cui tutti ti ignorano. In cui tutti ignorano la tua andatura incerta e protesa, da squalo morente e pronto a serrare le mandibole contro il vetro di un acquario dietro al quale la stessa gente ride, con un misto di paura, vomitevole contegno e scherno -ride. Hanno trovato la maniera di procedere ancora più in profondità del tuo neropesto. Hanno trovato il modo di scavare in superficie. Puliti e persino più feroci di te. Vincono partite senza neanche presentarsi al tavolo. Parlano di concessioni ed è quello che fanno. Concedono aria a chi ne toglie e soffoca lui stesso avvelenato dal cibo che ormai puzza di neropesto, il fumodenso che traspira dagli occhi, esonda dai baffi, dalle camicie, dalle dita che puntano ai suoi fantasmi dietro il vetro spesso di un acquario. Sputi e annaspi e il gioco non valeva la candela, non valeva gli incendi. Non valeva niente in confronto alle fratture, alle crepe della terra che non ti sarà lieve. Si chiama sconfitta ed è anche questa una Rivelazione. La terza in ordine di tempo, ingolfata nel rantolo di bestia che credi morta, incastrata tra i canini altrui, persa nel tratto di penna che completa la mappa cocciuta e maldestra di chi non capisce il valore della resa. Il momento in cui tutto crolla e ammette le reali proporzioni. Tu invece ti ostini e opponi un ultimo getto nero nell'aria. Zampilli e spacchi crani altrui come fossero il tuo. Non ne esce nulla. Qualcuno provvisto di una cannuccia più lunga della tua ha succhiato quello che hai accumulato. C'è sempre qualcuno che drena qualcun'altro e mentre scendevi in profondità, mentre ferivi quella terra che non ti è lieve, furibondo, verso il basso e verso ciò che è attorno, dimenticavi l'alto. Un suggerimento specchiato per un attimo in una pozza più nera di te.

Thursday, February 14, 2008

Abracadabra



Il mago Flux perse le doti di illusionista il giorno del suo ventinovesimo compleanno. Più corretto sarebbe dire che le dimenticò. Tutte in una volta sola. Se ne accorse davanti allo specchio. Aveva appena finito di radersi. Tentò il numero del rasoio: un gesto impercettibile, trasferiva l'arnese dalla mano all'interno del bicchiere di ceramica. Chiuso. Una cosa da dilettanti, un divertissement per tenere le dita in esercizio. Pochi istanti dopo, invece, il rasoio oscillava nel lavabo e sul suo mignolo fioriva una linea rossa.

"Opporcaputt...".

Ne parlò circospetto con Lothar: centoventi chili di domatore di tigri austriaco.

"Nulla. Non mi ricordo nulla."
"Provato con cilindro?"
"Macché, niente."
"Fa' cose semplici. Tipo giochi di moneta."
"Lothar, è inutile. Non riesco neppure a indovinare una carta."
"Allora situazione è grave. Spettacolo?"
"Ho già avvisato. Mal di stomaco."
"Riposa. Dorme. Domani riprova. Scusa, c'ho tigre con problema."
"Ancora il singhiozzo?"
"Ja.."
"..."

Il giorno successivo Flux era sempre privo dei suoi talenti. Decise di confessare tutto a Mr. Badmington, il proprietario del circo che, preoccupato, lo indirizzò subito a un vecchio collega.
Il mago Astolfo, fatta eccezione per un nome d'arte di illustre discendenza, non aveva ormai più nulla degli altisonanti toni da illusionista. Viveva al pianterreno di un palazzo assolutamente anonimo, perennemente intabarrato in una vestaglia di un mesto tessuto scozzese e distratto dalla sua stessa ombra. L'unico incongruo segno dei fasti trascorsi era la camicia bianca, inamidata in modo inappuntabile, che si ostinava ancora ad indossare. A Flux l'appellativo scivolò di bocca:
"Maestro, ho un problema"
"Mi hanno riferito tutto. Badmington è molto preoccupato. Dice che sei bravo, uno dei migliori. L'ho già rassicurato: sono cose che capitano".
"Quindi non è irrimediabile?"
"Dipende", rispose affondando l'indice in un vaso di fiori.
"...Da cosa?"
"Oh, da un sacco di cose...". Una pianta di gerani sbucò dal foro praticato nel terriccio.
"...E' difficile?"
"Nulla che non si possa ottenere con la giusta dose di pazienza. Pazienza e cotolette, mio caro".
"...cotolette?".
"Cotolette. Panàte. Scusa, è la fame. Tu non hai fame? E' ora di pranzo. Mangiamo".
"..."

Il mago Astolfo si fece raccontare tutto. Eventuali sintomi, incidenti, traumi, avvenimenti casuali, chiese perfino uno stralcio di anamnesi familiare. Quando erano ormai alla fine del pasto, prese un lungo respiro e indicò con un cenno della testa la mano di Flux.
"E' un cucchiaio. Stai sbucciando la mela con un cucchiaio".
"Opporcaputt'..."
"Non è grave. E' scomodo, ma non grave".
"...mi scusi, sono preoccupato. Lei capisce, Maestro: il mio lavoro, il circo, la carriera..."
"Sono stato io".
"Ah."
"Non è vero. Ma avrei potuto. Il punto è che, senza neanche volerlo, hai causato un'illusione".
"..."
"Fino a qualche istante prima, non mi ero accorto del cucchiaio. Credevo stessi usando il coltello. Come chiunque. Capisci? Volevo vederti usare il coltello".
"Però questo non significa che ne sono in grado consapevolmente! Non ho riacquistato le mie capacità".
"No, infatti. Per riavere quelle devi convincere chi hai davanti che il coltello è diventato cucchiaio nelle tue mani. Che sei stato tu".
"..."
"..."
"Maestro, dorme?"
"No, autoipnosi".

Una settimana di riabilitazione fu sufficiente. Il mago Astolfo osservò il suo nuovo allievo far scomparire nell'ordine: varie posate, un cuscino, sette o otto -difficile appurare- cotolette (panàte), cinque rotoli di carta igienica, due saponette, cinque calzini, dodici penne a sfera. Gli oggetti riapparirono il più delle volte nella posizione originaria (centimetro più, centimetro meno), ogni tanto invece fu necessario cercarli un po' in giro per l'appartamento. I progressi -tuttavia- erano evidenti.
La sera della rentrée, Flux si comportò egregiamente. Mr. Badmington assistette all'esibizione dall'accesso alle quinte, insieme al mago Astolfo e a Lothar: i tre si sgomitavano approvazione entusiasta. Nessuno di loro, però, mancò di notare una specie di smarrimento sorridente negli occhi di Flux. Una sorta di stupore che seguiva ogni illusione.
Durante la cena, dopo lo spettacolo, Lothar e Flux si ritrovarono seduti di fianco.
"Come sta la tigre?"
"Meglio. Fatto bere acqua. Piscia tanto ma nicht mehr singhiozzo.
E tu? Ricorda illusioni, ora?"
"Oh, sì".

Thursday, February 07, 2008

Tomorrow Never Knows



Io di concerti non ne vedo molti. Ne perdo in continuazione. Però so che quando si tratta di gruppi poco famosi o che magari dividono la serata con uno o più artisti, c'è sempre il problema dei tempi. Stabilire quanti minuti toccano ad ognuno. In base a gerarchie poco razionali, per chi si esibisce, è questione di quante canzoni far stare in quei venti, trenta minuti. Spesso, al termine del concerto, il pubblico gradisce ed è un delitto interrompere quell'entusiasmo. Si cerca un cenno dal buio del mixer: le dita che numerano quanti pezzi si possono suonare ancora oppure il segno di smettere per lasciare il palco al prossimo. E c'è una frase straziante. Sto male ogni volta che la sento. Si chiede: "C'è tempo per un'altra?". A volte il tempo c'è. Altre no e arriva lo schiocco del jack che fuoriesce strattonato dagli strumenti. Si smonta ciondolando, con l'adrenalina ancora addosso e un'euforia non espressa completamente. Quando accade mi domando come sarebbe stato quel finale. Quale canzone sarebbe seguita; magari era una sorpresa, un arrangiamento tenuto in serbo per chi ha gradito il resto. "C'è tempo per un'altra?": le mani non mollano la pressione sulle corde, perché -casomai- si attacca subito. Quel tempo, quello per "un'altra", spesso bisogna rubarlo e metterci dentro tutto ciò che si ha da dire. Prima di smontare tutto e girarsi in un 'ciao' imbarazzato.
Ciao, Ini'.

Friday, January 18, 2008

Casomai

Io sono un giocattolo ben congegnato, un meccanismo oliato che risponde a desideri improvvisi: a slanci storditi. Sono la mattina di natale, le ore che precedono il compleanno, sono quell'ansia e rispondo a quella necessità di ricevere. Sono il giocattolo esatto che volevi, il pacco scartato; e non mi trovi dietro le vetrine, non hai bisogno di chiedermi puntando i piedi, non devi neanche sforzarti di desiderarmi con i pugni stretti sotto il cuscino. Io non sono nient'altro che quello che vuoi. Sono un niente ben congegnato, un desiderio oliato, un giocattolo estinto il giorno successivo: quando mi sistemi accanto agli altri, quando hai spuntato la lista, quando hai fatto il giro della voglia.
Io sono quello che ricevi prima ancora di riuscire a chiederlo, sono la fortuna di chi non ha altri muscoli se non quelli del viso, sono un capriccio motivato a lungo, di cui -poi- non devi rendere conto. Io sono un doppione appena dissimile spacciato per indispensabile, accontento saltelli e mi esaurisco e poi mi ricarico in fretta così non hai modo di accorgerti di non poter chiedere ancora e non ho modo di pensare che non sono altro che un meccanismo oliato a cui manca il respiro se rallenta perché perde il suo senso, perde la sua ragione di essere solo un giocattolo che si estingue piano.

Io ho valige disseminate ovunque, sono veloce a prepararle, ho un'attitudine da sfollato che riesce a individuare immediatamente quello che deve raccogliere in una situazione di emergenza. Ho un sismometro impiantato nella bocca dello stomaco che oscilla linee isteriche sul dorso delle mie mani e mi rende ancora più preciso. Io sono esatto quando si tratta di piegare maglioni, chiudere le cerniere delle borse: il tempo di voltarti e ho già tutto in spalla. Il tempo di pensarci e sono già sulla porta. Perché ho imparato quando è il momento di restare e lottare e ho capito altrettanto bene quando bisogna mettere anni luce tra te e quello che ha il solo scopo di risucchiarti nel nulla della sua mancanza.