Saturday, March 29, 2008

Bonus Track

so che stai per
andare a dormire
perché
fuori la luce si spegne
e l'ultimo
pensiero
riposto con cura sonnolenta
sul comodino
non arriverà a domani
non arriverò a domani
lo so
che stai per
andare a dormire
perché
io sono
in contatto telepatico
col tuo orsacchiotto più
malandato
quello che torturavi
con matite e
un'euforia a cui
l'età ti impediva
di dare un nome
che invece
io so
che stai per
andare a dormire
perché
sono lì
lo so
che a questo punto
posso
rubarti l'istante preciso
in cui il corpo
cede a quello che
sembra stanchezza
ed è piuttosto svuotarsi
le tasche delle aspettative
del giorno
domani domani domani
lo so
che ora non dormi
lo so
e il tuo orsacchiotto più
malandato
sorride.




* E' stata scritta qualche anno fa e pubblicata altrove. Il tempo cambia quello che c'è attorno.
Le parole e i gesti fanno la differenza.

Wednesday, March 26, 2008

A me (n)



Provo da qui, ora che sono distante. Ci ho messo chilometri e anni, pazienza e inciampi. Perdoni svogliati e condanne estenuanti. Provo da qui, proprio oggi che il sole sfrigola come fogli di alluminio accartocciati e mi sento come quando ti si impiglia il maglione in una sporgenza: con il fastidio di essere strattonato da qualcosa che non consideri. Riportato indietro a forza -pochi istanti prima- mentre ti immagini già altrove. A quanto pare ci sono conti invisibili eppure aperti. Sbrìgati a chiuderli e passa a ciò che richiede la tua attenzione quotidiana -mi dico. Così decido di provare a sistemare le cose da qui, ora che non mi perdo più -affogando- nei bicchieri d'acqua, ma neppure ci sguazzo fingendo -come tanti- che siano laghi. Cerco un punto più alto, mi arrampico e cambio prospettiva: col faticoso, urgente pragmatismo che mi hai involontariamente insegnato. La prima cosa che voglio dirti è che io non cerco scuse. Per inciso, non sono più capace di inventarne e non mi piace insultare quel poco di fantasia che ancora coltivo. Quindi inizio ammettendo le mie colpe. La mia scomparsa, su tutte. So che mi hai cercato e so che non sono bravo a coprire le tracce. Oltretutto, difficilmente cammino a ritroso e questo elimina ogni speranza di depistaggio. Posso spiegarti, però. Ora. Spiegarti la mia insofferenza ai contorni ostinati, a quell'urtante abitudine che sviluppa chi riduce, col pretesto di semplificare. Sono diventato altro da quello che vedevi e non avrei sopportato di sembrarti la stessa persona: non avresti tollerato di scoprirti inadeguato a quello che mi avviavo ad essere. Non raccontarti balle e non raccontarne a me, ora. Ti smaschero da sempre. Non avresti tollerato neanche dei chiarimenti. Credimi, una volta per tutte, credi a me e a questa distanza che ti salvaguarda. Nessuno desidera chiarimenti che conosce. Sono solo pretesti per avere davanti, almeno per un istante ancora, l'oggetto della sua rabbia. Sono più interessanti e utili i percorsi che ci ritroviamo a calpestare da soli, quando realizziamo di avere le risposte sottomano. Sono più utili i calci ai sassi delle strade in cui sudiamo i nostri rimpianti come influenze da svernare: come sogni da ridimensionare. Io non ti piacevo più e non piacevo a me e questo -questo- è davvero insopportabile: non l'assenza o il gioco del rammarico in fondo alle tasche. E' così che realizziamo di poter perdere e conquistare allo stesso tempo qualcosa.
La seconda strada è il dolore. Qui il discorso si fa complicato perché c'è di mezzo la necessità di correre ai ripari. Ci abituano a cure allarmate mentre, il più delle volte, le ferite smettono di fiottare da sé e poi rimarginano. La sospensione che riusciamo a interporre va oltre la masochista idea di sopportazione. E' una conquista che ci infonde il coraggio di scoprire che siamo strumenti delicati e capaci insieme. Che in qualche modo più misterioso del nostro -legittimo- spavento, rimediamo ai colpi senza troppo bisogno di compassione o lacrime. E' dura accettarlo. E' dura scoprirsi allenati e più robusti di quanto si crede. La soglia di tolleranza e lo spazio della guarigione sono tempo che passa e forze che sbiadiscono. Spalle che si incurvano, chiavistelli a porte e finestre. Tu hai provato a togliere le bende e io te l'ho impedito. La ragione è semplice ed è il senso stesso di questa mia seconda strada. C'è qualcosa di peggio del dolore ed è l'identificazione con ciò che si patisce. L'ansia di diventare quel male e di assumerne i connotati. Il rigetto per l'eventualità di segni visibili e di caratterizzazioni nascoste, ma permanenti. Passare attraverso il dolore e i suoi postumi mollicci da cauterizzazione: questo volevo. Questo è quanto mi stavi impedendo di fare e io -io- non so stare al gioco di chi procede per tentativi più terrorizzati dei miei, almeno quanto non so convivere con la paralisi di un'incapacità interdetta. Dove vivo ora, arriva ogni tanto l'eco di tutto questo e io sorrido al riflesso svelto nella finestra che apro perché il ricordo di quel dolore passato giri: quel tanto che basta a fargli perdere la voglia di rimanere incollato al mio tempo.
La terza e ultima strada che mi ha allontanato e spinto fino al luogo da cui ora ti scrivo è la felicità. Pare impossibile che sia proprio io a usare queste parole eppure c'è una felicità che non prevede condivisione. Mi ricordo che era quanto speravi per me, allora. Felice, finalmente. "Ché tutto questo finisca e finisca in fretta e che tu rida di nuovo e di nuovo smetta di gestire i margini delle tue stramaledette difficoltà" -così dicevi, allora. Io speravo e intanto schivavo sconfitte più grandi, assistevo attonito a possibilità falcidiate da una fatica grande come tutti i posti che continuavo a promettere a me stesso. Giurando che non avrei ceduto: garantendomi versioni meno sfarzose che mantenessero almeno la dignità. La terza e ultima strada è iniziata quasi per caso e non potevo spartirne le fasi con nessuno. L'avresti scambiata per una resa o -figurarsi- per un tradimento. "Ora che non hai più bisogno di me", avresti detto. La parola 'bisogno' entra nel mio vocabolario a malapena sotto forma di sinonimo, dovresti saperlo. Piuttosto, sulla terza strada mi hanno investito come si vede in certi film in cui un impatto dilata persino l'avvertimento. Io non volevo essere salvato. Tu ci hai provato fin troppo. Non ti accuso: abbiamo sempre reagito all'imprevedibilità con una smania da missione suicida. Avresti mai detto che la felicità proveniva da quell'ennesimo punto privo del nostro controllo? Non credo di sbagliare se rispondo per te. Non l'avresti mai detto, no. Mi concedo tanta supponenza perché sono il primo ad ammettere che non lo avrei mai neppure pensato.
Ora sono qui e sai dove trovarmi. So che sei arrabbiato e so che questi chilometri ti costeranno tanta fatica quanta ne ho dovuta chiedere io stesso alle mie spalle. Magari, una volta che i muscoli avranno smesso di farti male e poi di essere indolenziti, ti verrà voglia di venirmi a trovare. Puoi farlo. Non abbiamo parole da nasconderci e abbiamo poco da rimettere insieme. Passa, quando vuoi, anche senza avvertire.