Lo sfiòco di luce
avvisa della pausa.
In un'arena estiva
sbilenca come questa
neanche dei popcorn,
la Bomboniera,
una cocacola, macché:
niente.
Si sgranocchia afa
e le ultime immagini
prima del secondo tempo.
Siamo in tre
-forse- quattro
contando l'addetto al proiettore.
Fissiamo ostinati il telo bianco
impettiti dall'imbarazzo
e dalla solitudine,
dalle sedie scomode
chiese in prestito alla cena del partito.
Le ultime immagini ricapitolate
come un numero di telefono importante
(ha carta e penna? No.)
per non perdere il filo della trama.
All'interno del cortile
ci scortichiamo
le punture di zanzara,
solleviamo con perizia i veli
di abbronzatura,
anatomo patologi delle migliori giornate
di sole sbriciolate tra le dita,
memorizzate sotto i polpastrelli,
già sbiadite dalla pragmatica ottusità
degli errori che si fanno solo quando
l'autunno si annuncia e ci invade
l'illusione che far provviste
non ingolferà le macchine al mattino:
che spianerà i tremori dei primi freddi.
E a te seduta in terza fila,
che respiri forte e impaziente,
magari proporrei tutt'altro.
Direi che 'sto film è una condanna,
un malanno intermittente
una macchia di luce e ombra gettata
con poca cura contro i muri
e vorrei dirti che
c'è ben altro
anche a pochi metri da qui
ci sono scalini un po' più freschi
dove raccogliere le gambe
e scoprire le ginocchia
e poggiarsi le teste sulle spalle
come se niente fosse come se niente poi
davvero ci preoccupasse
dietro le persiane del primo piano
sui tetti dei palazzi uggiolanti umidità,
niente come sembra niente come
riusciresti a immaginare;
ma la luce si spegne con un tonfo
dell'occhio che
si riabitua al buio
il secondo tempo
le ultime immagini ancora.
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