Piacere mi chiamo Luigi Lattanzi. Gino, per gli amici: Gino Lattanzi. Non è che io sia molto bravo a raccontare però ora vorrei provarci, vorrei provare a raccontarvi come sono arrivato a questo punto in cui io, lo dico sottovoce, io sono diciamo praticamente felice. Dunque. Io sono nato ad Ariccia. Ariccia è il posto che uno dice: la Porchetta di Ariccia. Va bene. C'è a chi piace. A me no, ma non è che faccio la differenza. Se uno dice: sono nato ad Ariccia tutti gli risponderanno: Ah! La Porchetta di Ariccia (appunto). Ora. Ariccia è un posto schifoso, fatevelo dire da uno che c'è nato e cresciuto fino ai diciotto -quasi diciannove- anni, fatevelo dire: è un posto schifoso con una piazza che sembra una presa per i fondelli della geometria euclidea e poi il ponte. C'è un ponte che in realtà è un viadotto. La parte superiore di un acquedotto che praticamente è un pezzo di via Appia cioè, nello specifico, della cosiddetta Appia Pignatelli, che è quella che attraversa i Castelli Romani (quelli del vino de' 'li castelli e questa zozza società -zan zan). Insomma. C'è questa specie di sprofondo tra Ariccia e Genzano Romano che è un altro posto terrificante, ma con una sua ruspante dignità, come un dopobarba eccessivo, chessò: il Mennen. Il Mennen non so 'manco se esiste più, ma esisteva ed era il dopobarba di quelli che si lavano le ascelle nei bagni degli autogrill. Di quelli raffinati che si lavano le ascelle nei bagni degli autogrill. Il Mennen. Ecco: Genzano Romano sta all'estetica urbanistica come il Mennen ai dopobarba. Comunque. Ariccia fa talmente schifo che dalla cima di quel viadotto/Appia Pignatelli ci si butta la gente come mazzi di fiori sulle tombe (appunto). Da adolescente, quando passavo sul ponte e sbirciavo giù, arrivavano subito gli sguardi di sconcerto di tutti e dico tutti i passanti. Questo per due ragioni. La prima: i miei genitori si sono ammalati quando avevo poco meno di quindici anni e sono morti dopo due anni. Entrambi. A distanza di due settimane. Dello stesso cancro. Due esseri umani concreti e stolidi che avevano preso molto seriamente quel passo della formula che dice: "In salute e in malattia". Bravi. Io, per dire, almeno uno di loro me lo sarei tenuto, in barba alla promessa. Niente da fare. Ho finito il liceo (scientifico, papà ci teneva) vivendo con mia zia, sorella di mia madre, nubile (zitella) e -intanto- la gente di quel posto terrificante che è Ariccia, quando mi vedeva sul ponte, si preoccupava. Ignara dei deliri adolescenziali sul pregare ogni notte per un cancro uguale identico a quello che aveva schiantato i miei. Seconda ragione: Ariccia è un buco di posto (schifoso). Eppure nelle sue ridotte (e schifose) dimensioni riesce a farci stare pure quella cosa informe e oleosa che risponde alla definizione di Provincia italiana. Se siete nati in una grande città, lasciate perdere: non capirete. Se vi illanguidite con frasi come "la grazia o il tedio a morte del vivere in provincia" vi svelo una cosa io: la Grazia, nel vivere in provincia, è un lampo appena percepito all'oscillazione del culo della più bella della scuola. Il resto è "tedio a morte" più qualche altro simpatico bonus tra cui spicca l'ostinata e rabbiosa attitudine di chiunque nel farsi gli affari vostri. E che sarà mai -direte voi- l'Italia intera è così. Posto che la vostra generalizzazione dovrebbe farvi riflettere, il livello di invadenza di un luogo di provincia è qualcosa che trascende l'immaginabile (per chi non lo vive). In provincia si aprono con sospetto i cassetti, nel timore che sbuchi fuori qualche cugino di terzo grado a sbugiardarvi sulla vostra igiene intima. Comunque. La combinazione di: provincia, ponte di Ariccia, Genzano Romano, il Mennen, i miei genitori morti quasi all'unisono.. ah, no. Manca una cosa. Ve l'ho detto che a raccontare non sono tanto bravo. Al liceo avevo formato un gruppo. Una cosa vergognosa: i soliti quattro scoglionati compagni di classe che tentano di dare un senso (?) al riff di "Smoke on the water". Senonché. All'ennesima festa in piazza deve suonare Tony Dallara. Quel Tony Dallara. L'illusionista da forfait. O era l'assessore. O uno che leggeva le poesie. Vabbè. Ci chiama lo zio del batterista: ragazzi c'è da suonare. Prima di Tony Dallara. Non è il massimo ma -perdio- è un palco e -perdio- davanti tutta Ariccia e il Ponte di Ariccia e pure qualcuno di Genzano Romano che esala Mennen (occhei la smetto). Decidiamo per una combinazione suicida: StairwaytoheavenSmokeonthewaterKarmaChameleon. Che cosa c'entrasse Karma Chameleon sarebbe lungo da spiegare. Saliamo sul palco. Suoniamo uno schifo. Sappiamo di aver suonato uno schifo. Scendiamo dal palco. Gli amici ci abbracciano. I parenti ci abbracciano. Tony Dallara viene da me. Mi stringe la mano. E mi dice: farete strada. Farete. Strada. In quel momento capisco che, altro che strada, abbiamo fatto davvero schifo. Tony Dallara è un burino psicopatico famoso grazie ad un unico brano, cantato a Sanremo, la cui versione fa pensare che si sia appena scolato il decimo Punt-e-mes. Tony Dallara, la sera stessa, si tromba mia cugina Luisa dopo averla notata mentre mi abbracciava sotto il palco. Tranquilli: è una vita che glielo rinfaccio. Vabbè. Diplomato, militesente (i miei genitori morti, un generale, non mi ricordo), decido di trovarmi un lavoro. C'è questo tizio di Frascati che però ha un magazzino ad Ariccia. Importaesportaricicla: boh. Lo incontro al bar più frequentato di Ariccia (fa schifo anche quello, avete indovinato). Sputazzando prosecco mi confida che gli è arrivato uno stock di un prodotto fenomenale. Un successo assicurato. Cinquanta scatoloni (cento pezzi ognuno) di "Splendy". "Splendy" è un aggeggio -mi spiega- che lava i vetri fuori e dentro. Embè? -gli faccio io. Qual è la novità? Lui increspa un sorriso diabolico, rutta, beve un altro sorso di prosecco e sputazza: contemporaneamente. "Splendy" lava entrambi le facce delle superfici trasparenti (e non) contemporaneamente. See, colcazzo.. -gli dico io. Calamìta -mi sputazza lui. Insomma "Splendy" sono due cosi quadrati che si calamitano attraverso la superficie da lavare e szgnic szgnic (questo è il suono di Splendy che lava, secondo lui) puliscono. In metà del tempo, senza doversi sperticare fuori dalla finestra e con esattezza. Se voglio (voglio?) mi fa un prezzo speciale e la merce è mia. Me la posso vendere per mercati. Quelli della domenica. Ce l'ho una macchina? Ce l'ho. Ce l'hai i soldi? Mamma e papà unisonamente previdenti: i soldi ce li ho. Comprate 'sta roba, gira pe' i mercati, fai la dimostrazione e vedi che te la tolgono dalle mani. Serve una licenza. Me la procuro. Serve un tavolinetto. Preso. Servono un microfono e un piccolo amplificatore: penso a Tony Dallara e requisisco quelli di Smokeonthewater. La prima domenica è il delirio. Arrivo tardi, quando la via centrale di Lariano (quella del Pane: Ah! il Pane di Lariano!) è già congestionata. Mi faccio strada tra cubi vestiti di nero con minicubi al seguito che arraffano gli scampoli come gli appartenessero da sempre. Ringhiano "Quantovòi?" e poi li gettano sul bancone, insultate dal prezzo e pronte a sbuffare più avanti. Riesco a ritagliarmi un rettangolo in cui aprire il tavolinetto e montare il mio set 'finestraglassexamplificatoremicrofono'. Traviato dalle prove in sala col gruppo, prorompo in un "Uantù, uantù, cech, cech". Due vecchine mi squadrano peggio che se fossi un pakistano venuto in cerca di guai. Guai seri. Un molosso coatto se la ride accanto a un mignottone a forma di Smart che solleva i Carrera (gli occhiali) e strizza gli occhi impiastrati. Non mi perdo d'animo. E inizio. Lo show è calibratissimo. Ho copiato le istruzioni contenute in ogni scatolone aggiungendo del mio. Nebulizzo generosamente il Glassex sulla finestra (il dono di un cantiere di Genzano Romano) e sciorino i pregi dello "Splendy". La magia del magnetismo. Sull' "in metà del tempo" c'è un profluvio di vene varicose che smottano: mi amano. Vogliono me. Vendo trenta (trenta!) "Splendy" e i più scettici comunque si informano. La spugnetta si può sostituire? Sì. La calamita si smagnetizza? No (cazzata). C'è in diversi colori? Che ci devi fare con i diversicolori? No, non è vero. Rispondo cortese: altri tre, ma sto aspettando il fornitore. Torno a casa con una specie di euforia in corpo che mi piglia il gozzo, poi la base del collo, poi di nuovo il gozzo e alla fine mi strofino gli zigomi per non piangere. Penso ai soldi, penso ai miei, penso al Ponte di Ariccia, penso a Tony Dallara, ai soldi, al fatto che ho diciotto anni quasidiciannove. Mi catapulto nel bar frequentatissimo (schifoso) di Ariccia e ordino un chinotto e poi, la sera, esco con un'amica del liceo che forse ci sta, forse no, forse la cosa non mi interessa mica poi tanto. Mi sto dilungando. Trascorrono circa otto mesi. Otto mesi in cui lavoro tre giorni a settimana e lo "Splendy" è un successo pazzesco. Affino la tecnica, imbastisco pure una fantomatica biografia dell'inventore dello "Splendy": un giapponese costretto a pulire le finestre dei grattacieli, che dopo aver rischiato più volte di finire sfracellato, ha ideato questo prodotto geniale (presto disponibile in diversicolori -la gente li reclama, il mio fornitore è un lavativo) che gli ha salvato la vita e gli ha fatto aumentare la produttività del doppio. Eh? -leggo nei loro occhi. Lava in metà del tempo -specifico. Aaaah! (Tripudio di venevaricose). Poi un giorno succede una cosa. Le cose, ho imparato, succedono che tu non te le aspetti. Questa, per molti, non è una novità. Lo capisco. Quello che bisognerebbe specificare ogni santissima volta è che le cose non solo succedono che tu non te le aspetti, ma pure in un modo che tu non te lo aspetti ed è quello che -in buona sostanza- ti frega e ti impedisce di farti trovare pronto (come invece sarebbe il caso, ché mica è sempre Natale). Insomma. Un giorno sono lì nel centro storico di Vetralla che è un paesino sempre dei Castelli Romani neanche troppo brutto, sono lì un mercoledì prefestivo con il mio tavolino e parlo dello "Splendy", parlo lanciatissimo, spruzzo -no: nebulizzo- Glassex e c'è tutto un parterre di giovani, vecchi, famiglie, coppie, bambini che osservano e va benino, vendo quindici "Splendy" e poi quando la ressa si allontana, mi alieno guardando il vetro della finestra con l'infisso color mogano chiaro, mi alieno e continuo a pulire con un gesto lentissimo della mano tipo il Maestro Miyagi toglilaceramettilacera. Sono ipnotizzato dalla mia stessa mano, dallo "Splendy", dalla trasparenza, dal fatto che dall'altra parte c'è un coso speculare a quello con cui tolgolaceramettolacera che si muove con me: è una specie di danza, un reciproco, una cosa a due , intima, che neanche la trasparenza tridimensionale del vetro nega. Più pulisco più vedo attraverso: è una cosa quasi Zen, penso che il Maestro Miyagi sarebbe fiero di me e a un tratto c'è questa ragazzina, questa bambina che sbuca nella cornice della finestra, dall'altra parte dove l'altra metà di "Splendy" sta facendo il suo lavoro insieme a me, magneticamente aiutandomi a dimezzare il tempo. Questa bambina avrà dieci anni, forse meno. Indossa una felpa fucsia delle Winx terrificante. Io i genitori li truciderei: comprale la felpa delle Winx, ma non di quel colore, ti prego. Insegnale la parola 'compromesso', ché tanto male non le fa, eccheccazzo. Insomma. Mi sbuca questa bambina che inizia a grattare sul vetro lasciando piccolissimi aloni che, merito del Glassex generosamente nebulizzato e dell'azione pulente dello "Splendy", evaporano velocissimamente. Io la saluto con la mano come davvero non potesse sentirmi attraverso la finestra intelaiata e attorno il nulla cioè l'aria. La saluto con la mano e sillabo un "Come-ti-chiami?" muto come fossi dall'altra parte del mondo, chessò: Ariccia-Genzano Romano senza il viadotto dell'Appia Pignatelli. Lei sillaba "Ca-ro-la" stando al gioco e io ringrazio il Signore ché almeno sul nome i genitori hanno avuto più gusto e fermezza di quanta sono riusciti a imporre per la felpa fucsia delle Winx e le dico sempre sillabando muto: "quanti-anni-hai?" E lei "No-ve" ho indovinato, le sorrido. Le dico "vuoi-uno-Splendy?" lei ride tantissimo come se l'avessi invitata a mangiare una cosa da grandi, un Carpaccio o se le avessi chiesto ce l'hai il fidanzato ,invece le dico tipo pesce le dico: "sei-sim-pa-ti-ca-ti-piac-cio-no-le-Win-cs?" e lei a quel punto ride tanto che io temo stia per precipitare di sotto, di sotto dove che è in piedi? E penso alla finta biografia che ho inventato del giapponese pulitore di vetri di grattacieli e penso che se non faccio subito qualcosa Carola morirà precipitando dall'altra parte della finestra con attorno il nulla e allora spalanco piano, la prendo sotto le braccia, lei non oppone resistenza e le faccio attraversare con cautela l'intelaiatura di mogano chiaro e la rimetto in piedi dal mio lato del tavolino e le dico:"sei salva" , adesso con la voce, il suono, le dico: "sei salva". Lei non ride, mi guarda fisso, mi dice: "Sei scemo" e io vedo la madre che arriva: "Le ha dato fastidio?" io scuoto la testa, sorrido, sventolo la mano verso Carola che si allontana guardandomi e picchiettando l'indice accanto alla tempia ridendo di nuovo tantissimo e io mollo le casse di "Splendy", il tavolino, il Glassex, il microfono, l'amplificatore e la finestra dono di un cantiere di Genzano Romano e mi allontano e da quel giorno io sono diventato felice.
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