Friday, May 29, 2009

...e non c'è inganno

C'è il trucco -penso.
Come quei racconti zen
che a un certo punto
ti gira la testa
e ti ritrovi al punto
di partenza,
con gli occhi che scappano ovunque
e le braccia che formicolano.
C'è il trucco -mi dico
e non l'ho ancora capito;
c'è il passaggio segreto
il doppio fondo
la botola nascosta
il pannello mimetizzato
la libreria girevole
rimetta-a-posto-la-candela.


C'è il trucco
io penso che c'è il trucco
e non l'ho ancora capito.
Mi sforzo e mi spremo
ce la posso fare.
Cavoli.
Alla fine capisco tutto, io
pur non capendo niente:
è una mia prerogativa.
(l'Altissimo distribuisce
i doni dell'ingegno
secondo una sua personalissima
idea di cabaret)
Ad ogni modo.

C'è il trucco -mi ripeto.
Deve esserci
e io -sicuro- non lo vedo
perché mi distrae l'assistente
cerimoniosa
sorridente
con le cosce piene
lucenti nei collant.
Cretino.
Guarda le mani.

E insomma poi
in platea
dove sforzo gli occhi così tanto
che vedo le lucciole,
a un certo punto
mi mordo le labbra
mi acchiappo anche un pezzetto di lingua
Cretino,
-e due-
guarda le mani.
Le tue.

Thursday, May 28, 2009

Nostoi

Grattugio i polpastrelli
sul muro
ché mi piace il dolore leggero
disturba quello che penso
e tiene lontano
quello che spero.

Certe volte mi traduco
a mente
in quel poco di lingue che so:
ci prendo le distanze
dalle opinioni.
Mi pare di potermi permettere
il lusso di:

- Non farci colazione
- Schivarle davanti allo specchio
- Sfilarmele come maglie
troppo strette
o
- Abitudini incagliate.
- Barche rivoltate.
A riva.

Così poi si è fatta l'ora
del silenzio siderale
che risucchia i passi
e le mani nelle tasche
e mentre sono in macchina
che inforco semafori
e stazioni radio
tremolanti
mi sento come quei pensieri che
a casa ci tornano da sé.

Wednesday, May 27, 2009

Scommessa

Al mattino
tu t'accorgi
che non sono proprio uguale
non da subito
-almeno-
perché dopo,
lentamente,
mi riapproprio
di me stesso.

E' per via
di una scommessa
fatta molto tempo fa
una sera in cui sul cielo
proiettavano in reverse
tutti i miei futuri sbagli:
ho puntato quello che
avrei dato per scontato
e l'ho perso,
proprio mentre Mastroianni
camminava stanco incontro
alla macchina da presa.

E' per questo che al mattino
io ti sembro un po' diverso
solo un paio di minuti
quando sono appena sveglio.

E' che ho perso una scommessa
e mi devo ritrovare;
è che inizia un giorno nuovo
e mi devo assomigliare.

Monday, May 25, 2009

Una nuova, brutta abitudine

Ho preso
questa nuova brutta abitudine
che infilo le cose
nelle tasche
altrui.
Ce le metto di nascosto
con un gesto
da prestigiatore,
elegante e furtivo
in una parola: paraculo.
Ho preso
questa brutta abitudine
che poi certi
dopo giorni
magari mi chiedono
"Oh, mi sono ritrovato in tasca
questo. Ma è tuo?"
e io svicolo
facendo spallucce
ridendo sotto i baffi.
Contento.

Ci metto di tutto
nei limiti
per via della capienza
se becco uno zaino o una borsa
ne metto di più grandi
o tante più piccole.
Mi piace immaginare
il disorientamento
come davanti a un furto
involontario
(col dubbio
di averlo invece
voluto.
La cleptomania
è roba di un secondo)
e poi lo sforzo
di risalire.
E poi quello di
capire il perché.
Perché? Perché? Perché?
Perché due non fa tre!
(m'è sempre piaciuta)

Allora a quel punto
m'immagino
che sbuco dietro l'angolo
di un muro o di un caffé
e dico:
perché so delle cose di te.
Oppure, se mi scoccio:
perché due non fa tre.

Click

Click può essere scatto
di otturatore
di interruttore.
Click invece
per me è
quando ti incastri.
Tipo i Lego
precisiperfetticlick
E ci sono le protuberanze,
i vuoti
e tutto si incastra si riempie
click.
Io da piccolo mi ricordo
una volta ho dato
da mangiare al mio
Uforobot
l'omogeneizzato
perché mi pareva che
non era abbastanza forte
che gli ci voleva
un aiuto
e un po' pure a me.
(Tu guarda che intuito della madonna
c'avevo già a tre anni)
Di lui -Uforobot-
solo la testa faceva click
e a me mi bastava:
click.
Ora che conosco gli altri click
che le cose possono fare
la testa mi pare poco.
Mi pare relativo.
Pure un mattoncino Lego
mi pare relativo
tutto così,
colorato ma binario.
Invece.
Ci sono i click degli odori,
dei sapori,
i click dei ripetitori
quelli invisibili
che abbiamo impiantati un po'dietro
le orecchie.
E poi i click più importanti
quelli che fanno l'inizio delle braccia
a contatto:
click.
E sei forte abbastanza.
Pure senza omogeneizzati.

Sunday, May 24, 2009

Che c'è scritto

come certi fogli io
m'accartoccio
anche senza mani
ma non
"guarda, mamma! Senza mani!", no.
Io m'accartoccio da solo
anche senza mani
come certi fogli
che poi cerchi di far centro
nel cestino.
Apro parentesi:
il basket m'annoia,
ma il tuffo
della palla che s'insacca
senza toccare i bordi
fluff
mi piace
ché l'Universo sarebbe una cosa compiutissima
e precisa
a prender bene la mira.
Chiudo parentesi.
Dicevo.
Io m'accartoccio come
certi fogli
che poi magari finiscono nel cestino.
A differenza della maggior parte
dei fogli (accartocciati)
io il più delle volte
a un certo punto poi
mi scartoccio
(sempre da solo)
con un rumore di pensieri risolti
quasi croccante,
mi scartoccio
senza tanto clamore così come
senza tanto clamore s'accartocciano i fogli
e m'accartoccio pure io -da solo.
E' un po' più complicato che stiracchiarsi
se volete sapere come è
serve una specie di corto circuito
un giro ai pensieri
tipo gli elettroni che cambiano di orbita
(a me 'sta cosa m'ha sempre fatto morire,
degli elettroni che cambiano l'orbita se gli
ci metti -per esempio- una pila da 9 volt vicino.
Quelle quadrate dei vecchi telecomandi)
Quando poi mi scartoccio
croccante
sono un po' spiegazzato
allora è utile una mano che arriva
una mano che mi spiana
le pieghe
con calma
e mi dice "sta' tranquillo,
leggiamo che c'è scritto".

Monday, May 04, 2009

Splendy

Piacere mi chiamo Luigi Lattanzi. Gino, per gli amici: Gino Lattanzi. Non è che io sia molto bravo a raccontare però ora vorrei provarci, vorrei provare a raccontarvi come sono arrivato a questo punto in cui io, lo dico sottovoce, io sono diciamo praticamente felice. Dunque. Io sono nato ad Ariccia. Ariccia è il posto che uno dice: la Porchetta di Ariccia. Va bene. C'è a chi piace. A me no, ma non è che faccio la differenza. Se uno dice: sono nato ad Ariccia tutti gli risponderanno: Ah! La Porchetta di Ariccia (appunto). Ora. Ariccia è un posto schifoso, fatevelo dire da uno che c'è nato e cresciuto fino ai diciotto -quasi diciannove- anni, fatevelo dire: è un posto schifoso con una piazza che sembra una presa per i fondelli della geometria euclidea e poi il ponte. C'è un ponte che in realtà è un viadotto. La parte superiore di un acquedotto che praticamente è un pezzo di via Appia cioè, nello specifico, della cosiddetta Appia Pignatelli, che è quella che attraversa i Castelli Romani (quelli del vino de' 'li castelli e questa zozza società -zan zan). Insomma. C'è questa specie di sprofondo tra Ariccia e Genzano Romano che è un altro posto terrificante, ma con una sua ruspante dignità, come un dopobarba eccessivo, chessò: il Mennen. Il Mennen non so 'manco se esiste più, ma esisteva ed era il dopobarba di quelli che si lavano le ascelle nei bagni degli autogrill. Di quelli raffinati che si lavano le ascelle nei bagni degli autogrill. Il Mennen. Ecco: Genzano Romano sta all'estetica urbanistica come il Mennen ai dopobarba. Comunque. Ariccia fa talmente schifo che dalla cima di quel viadotto/Appia Pignatelli ci si butta la gente come mazzi di fiori sulle tombe (appunto). Da adolescente, quando passavo sul ponte e sbirciavo giù, arrivavano subito gli sguardi di sconcerto di tutti e dico tutti i passanti. Questo per due ragioni. La prima: i miei genitori si sono ammalati quando avevo poco meno di quindici anni e sono morti dopo due anni. Entrambi. A distanza di due settimane. Dello stesso cancro. Due esseri umani concreti e stolidi che avevano preso molto seriamente quel passo della formula che dice: "In salute e in malattia". Bravi. Io, per dire, almeno uno di loro me lo sarei tenuto, in barba alla promessa. Niente da fare. Ho finito il liceo (scientifico, papà ci teneva) vivendo con mia zia, sorella di mia madre, nubile (zitella) e -intanto- la gente di quel posto terrificante che è Ariccia, quando mi vedeva sul ponte, si preoccupava. Ignara dei deliri adolescenziali sul pregare ogni notte per un cancro uguale identico a quello che aveva schiantato i miei. Seconda ragione: Ariccia è un buco di posto (schifoso). Eppure nelle sue ridotte (e schifose) dimensioni riesce a farci stare pure quella cosa informe e oleosa che risponde alla definizione di Provincia italiana. Se siete nati in una grande città, lasciate perdere: non capirete. Se vi illanguidite con frasi come "la grazia o il tedio a morte del vivere in provincia" vi svelo una cosa io: la Grazia, nel vivere in provincia, è un lampo appena percepito all'oscillazione del culo della più bella della scuola. Il resto è "tedio a morte" più qualche altro simpatico bonus tra cui spicca l'ostinata e rabbiosa attitudine di chiunque nel farsi gli affari vostri. E che sarà mai -direte voi- l'Italia intera è così. Posto che la vostra generalizzazione dovrebbe farvi riflettere, il livello di invadenza di un luogo di provincia è qualcosa che trascende l'immaginabile (per chi non lo vive). In provincia si aprono con sospetto i cassetti, nel timore che sbuchi fuori qualche cugino di terzo grado a sbugiardarvi sulla vostra igiene intima. Comunque. La combinazione di: provincia, ponte di Ariccia, Genzano Romano, il Mennen, i miei genitori morti quasi all'unisono.. ah, no. Manca una cosa. Ve l'ho detto che a raccontare non sono tanto bravo. Al liceo avevo formato un gruppo. Una cosa vergognosa: i soliti quattro scoglionati compagni di classe che tentano di dare un senso (?) al riff di "Smoke on the water". Senonché. All'ennesima festa in piazza deve suonare Tony Dallara. Quel Tony Dallara. L'illusionista da forfait. O era l'assessore. O uno che leggeva le poesie. Vabbè. Ci chiama lo zio del batterista: ragazzi c'è da suonare. Prima di Tony Dallara. Non è il massimo ma -perdio- è un palco e -perdio- davanti tutta Ariccia e il Ponte di Ariccia e pure qualcuno di Genzano Romano che esala Mennen (occhei la smetto). Decidiamo per una combinazione suicida: StairwaytoheavenSmokeonthewaterKarmaChameleon. Che cosa c'entrasse Karma Chameleon sarebbe lungo da spiegare. Saliamo sul palco. Suoniamo uno schifo. Sappiamo di aver suonato uno schifo. Scendiamo dal palco. Gli amici ci abbracciano. I parenti ci abbracciano. Tony Dallara viene da me. Mi stringe la mano. E mi dice: farete strada. Farete. Strada. In quel momento capisco che, altro che strada, abbiamo fatto davvero schifo. Tony Dallara è un burino psicopatico famoso grazie ad un unico brano, cantato a Sanremo, la cui versione fa pensare che si sia appena scolato il decimo Punt-e-mes. Tony Dallara, la sera stessa, si tromba mia cugina Luisa dopo averla notata mentre mi abbracciava sotto il palco. Tranquilli: è una vita che glielo rinfaccio. Vabbè. Diplomato, militesente (i miei genitori morti, un generale, non mi ricordo), decido di trovarmi un lavoro. C'è questo tizio di Frascati che però ha un magazzino ad Ariccia. Importaesportaricicla: boh. Lo incontro al bar più frequentato di Ariccia (fa schifo anche quello, avete indovinato). Sputazzando prosecco mi confida che gli è arrivato uno stock di un prodotto fenomenale. Un successo assicurato. Cinquanta scatoloni (cento pezzi ognuno) di "Splendy". "Splendy" è un aggeggio -mi spiega- che lava i vetri fuori e dentro. Embè? -gli faccio io. Qual è la novità? Lui increspa un sorriso diabolico, rutta, beve un altro sorso di prosecco e sputazza: contemporaneamente. "Splendy" lava entrambi le facce delle superfici trasparenti (e non) contemporaneamente. See, colcazzo.. -gli dico io. Calamìta -mi sputazza lui. Insomma "Splendy" sono due cosi quadrati che si calamitano attraverso la superficie da lavare e szgnic szgnic (questo è il suono di Splendy che lava, secondo lui) puliscono. In metà del tempo, senza doversi sperticare fuori dalla finestra e con esattezza. Se voglio (voglio?) mi fa un prezzo speciale e la merce è mia. Me la posso vendere per mercati. Quelli della domenica. Ce l'ho una macchina? Ce l'ho. Ce l'hai i soldi? Mamma e papà unisonamente previdenti: i soldi ce li ho. Comprate 'sta roba, gira pe' i mercati, fai la dimostrazione e vedi che te la tolgono dalle mani. Serve una licenza. Me la procuro. Serve un tavolinetto. Preso. Servono un microfono e un piccolo amplificatore: penso a Tony Dallara e requisisco quelli di Smokeonthewater. La prima domenica è il delirio. Arrivo tardi, quando la via centrale di Lariano (quella del Pane: Ah! il Pane di Lariano!) è già congestionata. Mi faccio strada tra cubi vestiti di nero con minicubi al seguito che arraffano gli scampoli come gli appartenessero da sempre. Ringhiano "Quantovòi?" e poi li gettano sul bancone, insultate dal prezzo e pronte a sbuffare più avanti. Riesco a ritagliarmi un rettangolo in cui aprire il tavolinetto e montare il mio set 'finestraglassexamplificatoremicrofono'. Traviato dalle prove in sala col gruppo, prorompo in un "Uantù, uantù, cech, cech". Due vecchine mi squadrano peggio che se fossi un pakistano venuto in cerca di guai. Guai seri. Un molosso coatto se la ride accanto a un mignottone a forma di Smart che solleva i Carrera (gli occhiali) e strizza gli occhi impiastrati. Non mi perdo d'animo. E inizio. Lo show è calibratissimo. Ho copiato le istruzioni contenute in ogni scatolone aggiungendo del mio. Nebulizzo generosamente il Glassex sulla finestra (il dono di un cantiere di Genzano Romano) e sciorino i pregi dello "Splendy". La magia del magnetismo. Sull' "in metà del tempo" c'è un profluvio di vene varicose che smottano: mi amano. Vogliono me. Vendo trenta (trenta!) "Splendy" e i più scettici comunque si informano. La spugnetta si può sostituire? Sì. La calamita si smagnetizza? No (cazzata). C'è in diversi colori? Che ci devi fare con i diversicolori? No, non è vero. Rispondo cortese: altri tre, ma sto aspettando il fornitore. Torno a casa con una specie di euforia in corpo che mi piglia il gozzo, poi la base del collo, poi di nuovo il gozzo e alla fine mi strofino gli zigomi per non piangere. Penso ai soldi, penso ai miei, penso al Ponte di Ariccia, penso a Tony Dallara, ai soldi, al fatto che ho diciotto anni quasidiciannove. Mi catapulto nel bar frequentatissimo (schifoso) di Ariccia e ordino un chinotto e poi, la sera, esco con un'amica del liceo che forse ci sta, forse no, forse la cosa non mi interessa mica poi tanto. Mi sto dilungando. Trascorrono circa otto mesi. Otto mesi in cui lavoro tre giorni a settimana e lo "Splendy" è un successo pazzesco. Affino la tecnica, imbastisco pure una fantomatica biografia dell'inventore dello "Splendy": un giapponese costretto a pulire le finestre dei grattacieli, che dopo aver rischiato più volte di finire sfracellato, ha ideato questo prodotto geniale (presto disponibile in diversicolori -la gente li reclama, il mio fornitore è un lavativo) che gli ha salvato la vita e gli ha fatto aumentare la produttività del doppio. Eh? -leggo nei loro occhi. Lava in metà del tempo -specifico. Aaaah! (Tripudio di venevaricose). Poi un giorno succede una cosa. Le cose, ho imparato, succedono che tu non te le aspetti. Questa, per molti, non è una novità. Lo capisco. Quello che bisognerebbe specificare ogni santissima volta è che le cose non solo succedono che tu non te le aspetti, ma pure in un modo che tu non te lo aspetti ed è quello che -in buona sostanza- ti frega e ti impedisce di farti trovare pronto (come invece sarebbe il caso, ché mica è sempre Natale). Insomma. Un giorno sono lì nel centro storico di Vetralla che è un paesino sempre dei Castelli Romani neanche troppo brutto, sono lì un mercoledì prefestivo con il mio tavolino e parlo dello "Splendy", parlo lanciatissimo, spruzzo -no: nebulizzo- Glassex e c'è tutto un parterre di giovani, vecchi, famiglie, coppie, bambini che osservano e va benino, vendo quindici "Splendy" e poi quando la ressa si allontana, mi alieno guardando il vetro della finestra con l'infisso color mogano chiaro, mi alieno e continuo a pulire con un gesto lentissimo della mano tipo il Maestro Miyagi toglilaceramettilacera. Sono ipnotizzato dalla mia stessa mano, dallo "Splendy", dalla trasparenza, dal fatto che dall'altra parte c'è un coso speculare a quello con cui tolgolaceramettolacera che si muove con me: è una specie di danza, un reciproco, una cosa a due , intima, che neanche la trasparenza tridimensionale del vetro nega. Più pulisco più vedo attraverso: è una cosa quasi Zen, penso che il Maestro Miyagi sarebbe fiero di me e a un tratto c'è questa ragazzina, questa bambina che sbuca nella cornice della finestra, dall'altra parte dove l'altra metà di "Splendy" sta facendo il suo lavoro insieme a me, magneticamente aiutandomi a dimezzare il tempo. Questa bambina avrà dieci anni, forse meno. Indossa una felpa fucsia delle Winx terrificante. Io i genitori li truciderei: comprale la felpa delle Winx, ma non di quel colore, ti prego. Insegnale la parola 'compromesso', ché tanto male non le fa, eccheccazzo. Insomma. Mi sbuca questa bambina che inizia a grattare sul vetro lasciando piccolissimi aloni che, merito del Glassex generosamente nebulizzato e dell'azione pulente dello "Splendy", evaporano velocissimamente. Io la saluto con la mano come davvero non potesse sentirmi attraverso la finestra intelaiata e attorno il nulla cioè l'aria. La saluto con la mano e sillabo un "Come-ti-chiami?" muto come fossi dall'altra parte del mondo, chessò: Ariccia-Genzano Romano senza il viadotto dell'Appia Pignatelli. Lei sillaba "Ca-ro-la" stando al gioco e io ringrazio il Signore ché almeno sul nome i genitori hanno avuto più gusto e fermezza di quanta sono riusciti a imporre per la felpa fucsia delle Winx e le dico sempre sillabando muto: "quanti-anni-hai?" E lei "No-ve" ho indovinato, le sorrido. Le dico "vuoi-uno-Splendy?" lei ride tantissimo come se l'avessi invitata a mangiare una cosa da grandi, un Carpaccio o se le avessi chiesto ce l'hai il fidanzato ,invece le dico tipo pesce le dico: "sei-sim-pa-ti-ca-ti-piac-cio-no-le-Win-cs?" e lei a quel punto ride tanto che io temo stia per precipitare di sotto, di sotto dove che è in piedi? E penso alla finta biografia che ho inventato del giapponese pulitore di vetri di grattacieli e penso che se non faccio subito qualcosa Carola morirà precipitando dall'altra parte della finestra con attorno il nulla e allora spalanco piano, la prendo sotto le braccia, lei non oppone resistenza e le faccio attraversare con cautela l'intelaiatura di mogano chiaro e la rimetto in piedi dal mio lato del tavolino e le dico:"sei salva" , adesso con la voce, il suono, le dico: "sei salva". Lei non ride, mi guarda fisso, mi dice: "Sei scemo" e io vedo la madre che arriva: "Le ha dato fastidio?" io scuoto la testa, sorrido, sventolo la mano verso Carola che si allontana guardandomi e picchiettando l'indice accanto alla tempia ridendo di nuovo tantissimo e io mollo le casse di "Splendy", il tavolino, il Glassex, il microfono, l'amplificatore e la finestra dono di un cantiere di Genzano Romano e mi allontano e da quel giorno io sono diventato felice.