Tuesday, December 18, 2007

Duemilasette




(...) I testi e la voce di Ferraby Lionheart in un disco e un ep infinitamente pieni di talento: "Not a useless word, in a book, in a song". L'aria immobile di Milano con Lynch nella testa, i Fiery Furnaces su una Polaroid e nelle orecchie e l'alba dentro, al centro del petto. Guille Milkyway e la sua Casa Azul che si ripete e si rinnova, il suo europop sopra le righe, le solite due strofe che piazza e ti fanno sorridere. Jens Lekman sempre più insopportabile e sempre più crooner e sempre più bravo. Il plagiarismo smodato e disinvolto dei Marmalade Souls, attorcigliato alle melodie come la lingua in bocca che schiocca dopo il dolce. La 42records, Emiliano e le -pochissime- persone che ancora rimangono e un perché c'è. Emma e Davide e la stima e l'affetto che ci hanno legato e ci legano. Sandro e Peppe, i Turnpike Glow, la loro scelta, l'amicizia che si declina nella speranza di ogni bene possibile. La mia città così difficile e così bella: da prendere prima a pugni, poi a carezze e infine anche un po' in giro. Bologna tanto immobile e compiaciuta eppure ancora così stranamente vicina. Chi l'avrebbe mai detto di ritrovarsi a imparare a conoscerla e a volerle ancora bene di nuovo. Un angolo di sabbia, ciottoli e mare dove il tempo non esiste e -più su- un quadrato d'erba dove il tempo è iniziato con un urlo nella testa. Il genio pop bulimico e prolifico di Montt Mardié, il suo falsetto così soul, le sue storie così meravigliosamente patetiche. I campi di picnic infiniti dei Pants Yell!, fieri appartenenti alla schiera di quelli che non hanno paura di giocarsi la melodia in cambio di niente. "In Rainbows" e il suo polverone. Possono farlo perché sono i Radiohead. A tutti gli altri restano i fan da scovare, gli escamotage più o meno intelligenti e i riflussi dell'industria. "In Rainbows" virale più nella musica che nella trovata. Infettivo esempio di come il pop sia materia da mani intelligenti e il rock sia e sarà sempre in fondo materia per mani messe (d)avanti alle canzoni. Kevin Devine e quel titolo "Put your ghost to rest": ci tocca essere bàlie sapienti, con la voce arrochita dall'esasperazione e il sorriso buono per i 'buonanotte' migliori. "And I've known trouble all my life and I'm sick of asking why. It's like screaming at a set of dice. They're gonna role the way they role and then you're never gonna know. So getting crazy's just a waste of time". Gli Irene così Lekman e, in un paio di episodi, una spanna sopra il loro nume tutelare (ma chi ha più l'onestà e la luminosa presunzione di cantare frasi come: "You're not ready for my kind of love"?). I Lucky Soul che seppelliscono le Pipettes e riportano i pois e le sinfonie Spectoriane fuori dall'attuale mainstream -ché è quello il loro posto- tra chi spera e crede che un po' più di stile ci salverebbe proprio tutti. Una statale paralizzata dalle ceneri di un pullman mentre premi la guancia contro il finestrino e ascolti il debutto agrodolce degli Annie Hall. Lo scheletro metallico che impressiona la retina come la consapevolezza di aver fatto il gesto giusto, di aver calato le carte nel momento migliore. Rivederli sul palco e ripetersi allo specchio dei bagni del Circolo che ce l'hai fatta: che hai vinto una delle battaglie. La guerra avrai tempo di disertarla o di vincerla senza accorgertene, impegnato in tutt'altro. La voglia di suonare dei My Awsome Mixtape, sentirli e vederli dal vivo a ricordarmi quanto certe età io le abbia poi tutte sballate. Un concerto vicino al mare in cui sentirsi meravigliosamente 'soli'. Le prime sublimi, immense venti pagine de "I Rabdomanti" di Moody, che prendono a calci nel culo tutto il ciarpame intravisto in circolazione, tutte le menzogne senz'arte né parte, tutti questi rischi mai presi, tutto questo scrivere informazioni: libri, giornali, web. Tutto questo informare senza un briciolo di passione o di cuore. Addio: wooosh, spazzato in venti pagine di talento e verità alla luce del sole. Aver mancato il concerto dei Wilco. Aver mancato il concerto degli Okkervil River. Esserne così triste e insieme felice e, intanto, gioire di due dischi diversi e simili, ascoltati mille volte a schiantarsi di accordi di settima e di coraggio. Sentire Battisti più spesso ovunque. Poco importa che siano serviti degli allegati in edicola. Un cucciolo di cane, femmina, che ha stracciato il guinzaglio e mi ha costretto a pensare che dovevo cambiare ancora una volta. Il minimo che poteva capitarle era finire su una copertina. L'idiozia e il divertimento in radio, i Son Volt ascoltati con il dorso delle mani ghiacciate sul volante e i Tuung che bussano sul vetro di una porta: chiusi fuori per colpa della nicotina. Trovarti seduta in braccio a me, dove speravo saresti finita. L'ep di David Bazan e il suo cattolico delirio: "Padre perdona loro..." e regalaci per sempre melodie così. Dacci un preset Casio su cui addormentarci felici. Dylan, di cui riesco davvero ad ascoltare solo tre dischi e che invece mi innamora in "Cassadaga" di un Bright Eyes incredibilmente riflessivo -'cresciuto'- e nell'urgenza di Josh Ritter. Eggers che si reinventa ancora una volta e tu non spieghi neanche più perché ami quello che fa. "New York, I love you", mandata in onda a mille brividi al secondo e poggiata sul mobile che fa da comodino. I limiti infranti a scudisciate dolceamaro nel nuovo The Dirty Projectors. Panda Bear, gli Animal Collective, la Akron/family e tutto quello che dimostra che si può parlare di vita e amore e suonare sperimentali(ssimi) e folk senza riempire locali veri e virtuali di facce meste e nihilismo. Il mio perdono che arriva tardi, in ironico ritardo su quanto scopro svanito: sporcato e poi sbiadito nella sua grigia corsa verso il nulla. I miei adorati Mum che anticipano un disco 'solo' bello con un live radio da infarto. I National che sprangano le finestre e i sogni da discount con la gente dentro e i The Most Serene Republic che arrivano a far prendere aria a lenzuola e capelli. Gli Altro che lanciano una palla da bowling contro i miei quattordici anni. E mi fanno malissimo e bene allo stesso tempo. Gli Of Montreal che dal vivo scheccano da dio e pochi sono così angolarmente pop in calzamaglia. Forse solo gli Apples in Stereo con il loro fiume di accordi: matematici e roboanti -senza calzamaglia, però. Tutte le risate e il delirio che mi hanno causato i Valderrama5 a cui sarò sempre debitore. I dischi dei Linda Guilala che continuano ad arrivare nella buca della posta e affondano -lame- certezze piccole e ostinate. Riprendere chine e pennarelli. Chiudersi su una sedia recintata e disegnare, disegnare, disegnare. Aprirsi su una sedia circondata dalle briciole della colazione e disegnare, disegnare, disegnare. I pezzi che ancora devo mettere in ordine e -quindi- ci sono gli Shout Out Louds: in totale armonica confusione, in perfette opportunità di confondermi. Bene e male, gracile e robusto. Strati su strati di cupa passione mista a nostalgia dell'altroieri. Uniti nella delusione il debutto dei Voxtrot -grandi speranze prodotte male- e "White Chalck" di Pj Harvey -pretenzioso lavoro prodotto benissimo. Bello l'estro notturno e umorale di Loney Dear e quello ricercatissimo fino al millimetrico cardiopalma dei +/-. Altrettanto ricercato il disco di Slope (microglitch da cesello) mentre "Cosmos" di Murcof può convincere molto solo chi ha scoperto certa elettronica l'altroieri (compresa la sua). Scuro e denso EL-P, ma meno convincente del solito, Vert che si mette a scrivere canzoni; l'immenso "Interregnums", il bonus disc del "Preparations" di Prefuse73. 'Opera', nel senso più stretto del termine, ambiziosissima e riuscita; suoni di questo mondo (acustici) a suggerire percezioni di altri mondi (elettronici?). Cos'è (or)mai l'elettronica? Una bella chiacchierata sulla musica fatta a un tavolo del SinisterNoise oltre l'orario di chiusura. I Maritime che ne infilano un altro, complicandosi la vita molto più che bene e finendo per somigliarsi meglio. I Dashboard Confessionals di "The Shade Of Poison Trees": io -lo dico- se fossi adolescente oggi, ascolterei emo fino allo sfinimento e loro sarebbero i miei eroi. Siccome adolescente non sono, loro rimangono per me 'semplicemente' una band di enorme talento. L'ho detto. I Rogue Wave che hanno licenziato un disco che è un bicchere d'acqua gorgogliante. E' acqua ed è buonissima. Il fulminante "Gaps" di Monster Bobby: diretto, assolutamente irresistibile. Padronanza travestita da noncuranza. Padronanza pop vera, quindi. I Subsonica in spolvero sfavillante, acciambellati sul passato e protesi al futuro. Infiniti quando la piantano con lo spleen sabaudo e sgranano perle: "Quella porta è un dolore lontano, che nessuno doveva vedere" (Canenero). La pancia più sottosopra del solito per quello che accade in Tibet e -era ora- diventa cronaca, inchiesta, riprese. Tutto il rosso e l'arancio delle tuniche, gli interessi, la mobilitazione a tempo determinato e uno dei tuoi desideri che rimane tale, ma acquista voglia. Poco cinema, ancora una volta. Poco cinema 'in sala' e tanto in casa: braccia conserte e occhi vigili. Non hai ancora ascoltato il disco dei Dead Kennedys. Non hai ascoltato un sacco di cose. Hai consumato i Cripple Lilies e gli Stars, decine di cdr masterizzati al volo prima di uscire. Ti sei scorticato testa e immaginazione su quello che non hai capito immediatamente, come al solito. L'ennesimo disco bellissimo dei Pinback, la magia solenne degli Arcade Fire e della loro Bibbia al neon, ma più ancora la coincidenza di un regalo, le esplosioni ovunque vai, ora. Ché ti devi un po' abituare a tutte queste deflagrazioni, tu che detesti persino le porte che sbattono; eppure è un rumore diverso, è un ronzio di fondo che ti si attorciglia ai timpani caldi e decade con la lentezza di un ultimo "ciao".
Ciao.

Wednesday, December 12, 2007

Repeater




La sala due è aperta alle estremità longitudinali, sorvegliate da altrettante hostess che si lanciano annoiati sguardi di intesa ad ogni segnalazione acustica causata dagli avventori troppo prossimi alle opere esposte. Dopo il controllo all'ingresso, degno del check-in di un volo per Teheran, non saranno certo un paio di tailleur rosso pastello a impensierirmi. Sorrido per compiacenza ad una delle due addette che si liscia la gonna. La gonna non fa una piega.
Lei intanto è nell'angolo opposto, come stabilito.

Scrivi nuovo messaggio.
"Tutto pronto. Avevo detto niente roba vistosa".
Invia messaggio.
...bzz, bzz, bzz.
Nuovo messaggio. Leggi messaggio.
"Vistosa un cavolo. Ho una nuance di castano per cui Rory Gilmore piangerebbe lacrime amare. Aspetto segnale ".

L'aggeggio tecnologico, frutto degli ultimi mesi di lavoro e scampato al metal detector all'ingresso, è un Ripetitore. In breve: capta suoni attraverso un microfono e li trasmette a tutti gli apparecchi nel raggio di dieci metri che siano dotati di un altoparlante. A lei l'incombenza di scegliere la vittima.

Ci sono almeno venti audioguide deambulanti. Inequivocabile la postura: a metà tra la chiamata in assenza di campo e il "Passami una penna che me lo segno... Scusa, puoi ripetere?".

...bzz, bzz, bzz
Nuovo messaggio. Leggi messaggio.
"Trovato. Giacca dell'Adidas su pantalone multitasche. Zona primo Lichtenstein. Gesticola ad una che sta per tentare il suicidio con le scatole di Brillo. Passo".
Rispondi. Nuovo messaggio.
"Individuato. Pare un Simpson. Mi avvicino. Tieniti pronta".

Perché in fondo -ho pensato- in fondo è questo quello che fa la differenza. E' questo che fa la differenza quando chi parla sentenzia come se le poche persone presenti fossero un pubblico e non degli interlocutori. E' questo che fa la differenza tra il delirio egotico e il confronto o la pacata opinione. La differenza -ho pensato- la fa il numero. Bella forza: sai che intuizione. Già. Però -ho pensato- quella cifra di scarto a cui si rivolge vaneggiando il delirante egotico di turno è sempre assente. Cosa accadrebbe se ci fosse improvvisamente davvero un pubblico nutrito? Se quella platea apparisse d'un tratto? Cosa accadrebbe se quelle parole finalmente davvero si confrontassero? Le scaramucce, per piccole che siano, non si possono combattere a distanza di sicurezza.

Lei ha in dotazione un altro congegno che amplificherà il segnale ripetuto. Una specie di ponte-radio. Siamo sincronizzati. Abbiamo ripetuto l'esperimento decine di volte. Entro nel raggio del Simpson blaterante. La sua accompagnatrice è effettivamente a un passo dal suicidio. Le va riconosciuto un autocontrollo mica da ridere.
"Perché poi, vedi, la pooopart è anche taaaaaanta immondiiizia... Vedi (vede) per esempio questo...questo Lichtenstein...vedi.. (vede)"
E' il momento. La cerco con lo sguardo. Non c'è che dire: è una nuance impeccabile quella che oscilla annuendo.
Contatto.
"Vedi (vede)- per eseeempio questo Lichtenstein non è un lavoooro... non è un'operad'aaaarte... questo Lichtenstein è uno stuuudio! Solo un banale stuuudio!"
Il vaneggiamento viene sparato alla giusta dose di decibel nelle orecchie di tutti i -fieri- possessori di audioguida. Sulle prime la novità viene accolta da uno spasmo collettivo. Un disorientamento molto simile a quello provocato dalla pressione del tasto sbagliato sul telecomando di un televisore. Poi per fortuna il Simpson continua a indurre la sua accompagnatrice al suicidio e tutti cercano con lo sguardo la fonte di un simile sproloquio. La trovano. Lui se ne accorge. Inizia a indietreggiare verso lo 'stuuudio' e l'aspirante suicida accarezza finalmente l'ipotesi di usare i Brillo contro di lui. Gli audioguida-muniti gli lanciano occhiate di disapprovazione. Il Simpson cerca di andare contro le leggi della fisica accostandosi progressivamente al muro come volesse oltrepassarlo.
Io e lei ci allontaniamo verso la sala tre.
"Questa nuance è abbagliante".
"Grazie. Chilometri di strisce di prova.
La prossima volta mandiamo in onda l'appello di De Gaulle alla Nazione?"
"Sicuro. Quanto dura?"




[L'otto dicembre è scomparso Karlheinz Stockhausen. Grazie al suo genio esiste musica che rende il mondo un posto migliore e un pensiero obliquo in più sulle cose. Tantissimi gli sono debitori e -fra i tanti- nel mio piccolo, anche io. Questo racconto cerca di essere un omaggio a chi ha reso dignità al concetto di 'suono'. A qualsiasi 'suono'. Ricordando sempre il rispetto quasi mistico che gli è dovuto.
"Non avere paura di niente, perché niente ha paura di te" (Karlheinz Stockhausen)]

Tuesday, November 27, 2007

La Campionessa Di Shanghai




Le parole non si rigenerano da sole. Non sono pelle, non sono una pianta che poti e annaffi. Le parole non si riprendono autonomamente il loro significato, non si scrivono da sole la loro storia e il loro valore. Le parole si ammalano, perdono lettere e forza, offese dalla ripetizione e avvilite dalla noncuranza. Le parole fanno fagotto e finiscono altrove, in altre bocche, sballottate dalle frequenze prodotte da altre corde vocali; spanciano volgari, tuffandosi da altre lingue e precipitando in altre labbra. Fin quando, spianando l'ennesima pagina, realizzi che non significano più nulla per te. Anche se provi a riassegnargli un viso, se gli cambi posto all'interno di frasi che -hai giurato- non pronuncerai mai più.
Inizi a tacerle. Il vocabolario progressivamente ridotto a pochi eufemismi, i soliti gesti per supplire al vuoto: vòlti le spalle o le alzi simultaneamente ad incassare la testa. Le dimentichi e allunghi le pause che seguono sorrisi e assenza di respiro. Non ricordi più e cerchi alla rinfusa surrogati di non sai bene cosa. Tenti di affidare il compito a qualcos'altro. Forzi immagini e suoni che fanno il loro dovere, ma non rimpiazzano lo smarrimento. Intanto quello che puoi dire non occupa più spazio di un foglietto nella tasca e la tua voce ha il tono sgradevole di chi è stato troppo tempo in silenzio: di chi è continuamente appena sveglio.
Per questo ringrazi chi arriva con una scatola piena e la rovescia sulla tua spalla, vicino all'orecchio. Ringrazi come un assetato e l'entusiasmo di riavere tutti quei termini ti fa balbettare ancora, mentre afferri tutto con le stesse mani con cui ricacci dentro quello che cola agli angoli della bocca. Voracemente ingurgiti e il foglio in tasca diventa un libriccino e poi un volume pesantissimo pieno di illustrazioni con chilometri di didascalie e tu metti convulsamente a posto ogni cosa, costruisci scaffali e cassetti alla velocità della luce: con una foga che ti gonfia gli occhi. Esausto ringrazi e continui. "Non voglio smettere", lo dici con la lena di chi sa quanto è dolorosamente devastante agitare le mani a vuoto e, a quel punto, ti senti rispondere:
"Ora invece mescoliamo tutto".
"Giochiamo a Shanghai: smazziamo le parole come bastoncini. Come l'inizio di una partita, come spaghetti messi a cuocere nella pentola all'ora di pranzo."
Accetti la sfida e separate le parole. Le sollevate con attenzione precisa: con cura e concentrazione per quell'unico gesto compreso tra i polpastrelli stimolati dal pizzicorio delle punte. Ti accorgi che bara. Che a volte le parole, i bastoncini, tremolano. E' questione di passato -pensi. Di distorti significati pregressi. Di come non ci sia poi talvolta l'abitudine a vedere certi termini accostati secondo quell'ordine, una volta liberati dal caos. Ti accorgi e non dici niente. Prosegui la sfida, il passaggio dall'affastellare al riporre. Ricombini e osservi quell'intrico, imparando ad apprezzarne il delirio fascinosamente organizzato. La partita termina e inizia di nuovo. C'è una pausa che per un attimo ti pare esitazione. Magari non si può dire più di così. Magari le parole si consumano da sé -pensi. No, impossibile. Le parole non si rigenerano da sole, ma neppure sbiadiscono senza l'aiuto della negligenza altrui. La pausa coagula in uno sguardo che ti mette alla prova:
"Ho mosso. Ho mosso e tu non mi hai detto nulla".
Tu sorridi: è il tuo turno. Sollevi un altro bastoncino e rispondi:
"E' vero, non ho detto nulla. Perché tu bari, ma non imbrogli".

Monday, November 19, 2007

In Fila Per Due




C'è sempre un momento -mi dico- ed è sempre stato possibile identificarlo. Scriverlo con scarsa approssimazione su un foglio: quattro cifre separate in coppie da due punti che lampeggiano su un display. Invece le cifre cambiano colore, cercate alla penombra di un piumone sistemato a igloo sotto il quale riavvicini il piacere come una convalescenza. C'è un momento preciso eppure io non so fermarlo. Scrivo storie di illusionisti che riscoprono la loro capacità di stupire imparando a sorprendersi loro nuovamente per primi e mi sfuggono le parole da tutte le parti, mi sforzo di tenerle unite come bambini in fila, elettrizzati dal suono della campanella e quelle -le parole- se ne vanno ovunque e io getto le braccia lungo il corpo e sorrido e dico a me stesso -mi dico: "Ma sì, andate", ché c'è un tempo per stare il fila per due e un tempo per scontrarsi come satelliti impazziti nel cortile all'ora della ricreazione.
C'è una gradazione di attimi in cui fisso una schiena che viene a sistemarsi su di me e lo fa come un'altra maniera di respirare e io penso a quando sta per nevicare, a quell'istante preciso in cui tutto è immobile, aspirato alla successione delle cose: inghiottito e immobile. A quando poi tutto riprende col primo fiocco, come uno schiocco di dita riavvia il caos rilassato che segue le foto di gruppo: ora possiamo di nuovo sparpagliarci nel bianco, ora che ci stiamo costruendo un presente e degli splendidi ricordi. Eppure anche quel momento si sfilaccia e non sono più così sicuro che sia possibile identificarlo. Riuscire a dire quando precisamente accade.
Localizzare è semplice quando ci sono pochi dettagli, quando si decide di circoscrivere l'area da cui parte il riflesso attraverso cui verremo individuati. Quando però si piazzano specchietti ovunque e ogni cromatura, ogni finestra sventagliata è un pretesto perché la luce rimbalzi, localizzare diventa impossibile: l'individuazione perde ogni senso di esistere. Intuisco piuttosto che mi stanno regalando un'occasione chiarissima per confondermi. Di più e meglio. Un'occasione che non prevede momenti: è tutta una questione di tempo.
E' allora che getto le braccia lungo il corpo e mi arrendo e non c'è resa più bella di quella in cui poi dico: "Ma sì, andate", ché c'è un tempo per restare fermi e uno per uscire in fila per due a scontrarsi e mischiarsi come caramelle in una tasca.

Wednesday, November 07, 2007

Luneur '60




La famija mia sta qua dar sessanta. Dissero a mi' padre che aprivano il parco tutto l'anno e che c'era la possibilità de entra', de prende' un posto, 'no spazio. Bastava parla' co' un certo onorevole, uno democristiano che contava parecchio. Mo' devi pensa' che mi' padre era proprio un magnapreti, uno de quelli che si solo toccava l'acquasanta quella evaporava. Però c'aveva dei debbiti, degli 'mpicci da risolve' e allora se 'ngojò tutti i princìpi, se mise er vestito bòno e annò a fasse assegna' sto banco. Mo' fatte du' risate. Quelli se conosceveno! Mi' padre co' l'onorevole. Da regazzini, giocavano a pallone in cortile tutti li giorni che dio mannava 'n tera e questo ce pijava tanti de quei carci che figurate si se li scordava. Insomma mi' padre entra, se siede e rimane fermo. Paralizzato. Questo diventa tutto rosso e je fa': "ette mo' chevvoi?". Mi' padre 'manco je risponne. Se sta per alza' e quello, l'onorevole, lo ferma. "'ndo vai?" e lui: "Me sa che io e te nun se potemo capi'". "Co' i sordi se capischeno pure li muti". Capito? Je venì fòri la battuta, senza vole', così. I sordi, li muti. Insomma se fecero 'na risata e se rimisero a parla'. Com'è, come nun è, mi' padre uscì da quell'ufficio co' un contratto e 'na licenza. Trenta a lui, cinquanta a quello, venti ar Comune. Che mo' te pare poco, ma pe' un magnapreti come lui era stato un successone. Torna a casa e festeggiamo. Mo' però tra tutti 'sti corpi de scena non aveva pensato a quello che ce doveva mette' dentro a 'sto baraccone. Pensò e ripensò e decise pe' le corse de li cavalli. All'epoca erano fatte de legno, tutte meccaniche. Ne trovò una a PortaPortese. Un po' scrociata, 'na cosa d'occasione, ma mi' padre cor bricolage ce sapeva fa'. La domenicassera era 'na bellezza. Mo' fai conto che era il sessanta e ce stavano le Olimpiadi. Quelle de Benvenuti alla boxe e de quello etiopico, Bikila. Che quanno che se levò le scarpe se semo detti tutti: "ma 'ndo va sto rincojonito?" e 'nvece vince lui. Secco che pareva che si faceva corente se lo portava 'ndietro a casa. 'Nsomma era er sessanta, ariveno tutti questi co' 'n sacco de sordi, la sera li stranieri che se rimorchiavano l'italiane, l'italiani le straniere, tutti co' tutti; che se c'avevi 'n amico che masticava du' parole de 'nglese stavi apposto. E 'ndo annavano tutti a fa' l'innamorati? Certo ce stava er Tevere, ma quello annava bene a fine serata, prima de torna' al Villaggio. Questi venivano tutti là, al lunapark... E compraje er gelato, e compraje i popcorne, du' spari ar tirassegno, la bambolina... Poi però l'omo der millenovecentosessanta diciamo che c'aveva ancora un po' 'sti vizi che doveva scommette' e -zak!- veniva alla baracchetta de mi' padre. Che mo' c'è da di' 'na cosa. Mi' padre -per carità- era un brav'omo, però dopo un po' se accorse che 'sti cavalli giravano sempre male. Sarà che erano usati, sarà che l'aveva stretti 'n po' troppo, sarà come sarà, decise de allenta' le viti. E insomma qualche poraccio c'ha lasciato 'no stipendio. Tanto che a 'n certo punto mi' padre se fece veni' i sensi de corpa e aridiede 'na stretta. Giusto un mezzo giretto. Nun l'avesse mai fatto! 'Sti cavalli se 'ncastrarono durante 'na corsa e tutti a dije "Ao', so' truccati, limortaccitua!". Hai voja a spiega', quelli se 'ncazzarono e chiesero li sordi indietro. Hai capito? Vai a fa' der bene... Comunque sto a divaga'. Venivano tutti questi e io ner sessanta c'avevo... Famme fa' du' conti... Vabbè, dimo sedicianni. Un pischello. Ero proprio regazzetto lungagnone, che mi' madre pe' famme magna' doveva pija' l'imbuto. Insomma a 'n certo punto ariva questo, se mette a parla' co' mi padre che alla fine capisco che so' magnapreti tutti e due e se stanno a racconta' quello che succede in giro pe' l'Europa. Figurate! Io pe' mme veni' a l'Eur era già 'n viaggio! Poi vedo che questo me indica. Mi' padre je fa occhei colla mano, ché se stavano a parla' mezzo italiano mezzo a gesti e questo arriva e me dice: "L'hai vista la sciambr' de oreri?". Io mo' mica l'avevo capito che stava a di'. 'Sciambrdeoreri'? Ecched'è? Ho pensato: forse ha detto toreri. Sarà spagnolo. E j'ho detto: "Olè!". Mo' me ce vie' da ride, ma pensa che figura che c'ho fatto... Poi ho scoperto che questo era 'n intellettuale, uno de curtura, famoso. Era francese. Che, pe' noi morti de fame der millenovecentosessanta, 'francese' voleva già di' tutto un mondo de cose che te facevano gira' la testa. Ereno artri tempi, nun lo pòi capi'. Insomma questo se mette a ride' e me fa': "Ma che 'olè!', vieni! Allez!". Allè? Olè? Ma che sta a di' questo? -ho pensato. Insomma me porta alla casa dell'orrori. Che mo' all'epoca era 'na cosa sofisticatissima. Tutta artiggianale, fatta ad arte, 'na cosa che pe' noi sempre morti de fame der millenovecentosessanta era tipo Ollivud. "Allez!" ...Arifacce... Entramo e c'è tutto buio, co' dei suoni che io me sento la spina dorsale fredda come 'n morto. Anzi, peggio: ché quello è morto e io 'nvece sto là che 'n artro po' me la faccio addosso. E intanto questo -er francese intellettuale- va avanti e io dietro colle gambe de pastafrolla. "Allè allè!..." Io a 'ncerto punto vedo un pipistrello che me passa a du' dita dalla testa e me pianto. "Mo' basta! -je urlo- M'hai rotto! C'ho paura! Vabbene? C'ho paura, strizza, come cacchio lo dite voi artri?". E pe' faje capi' mejo me tiro er cavallo dei pantaloni. C'avevo sedicianni, capiscime. Nun avevo visto gnente e questo me trascina pe' tutti 'sti orrori e non ce stavo a capi' più. Insomma il francese se ferma, me guarda co' du' occhi così. Considera che li vedo appena, ma penso: mo' me mena. Pensa che c'ho 'na crisi e me pija a pizze. Invece vedo che se sforza, acchiappa le parole da qualche parte e me dice: "Non averci paura di niente, perché niente ci ha paura di te". E me pija un dito e me lo spinge contro 'na parete de roccia de palude che invece mentre lo spigne è de carta pesta e il dito mio fa 'n buco che se vede dall'artra parte e entra un filo de luce sottile mentre lui me dice "Capisce?" e io faccio de sì colla testa mentre un filo sottile entra, un filo de luce der millenovecentosessanta.
Che poi ce so annato in Francia, sai?

Friday, October 26, 2007

Pescetti




- Ti do tre pescetti di liquirizia.
- No.
- Cinque.
- Non se ne parla.
- Dieci.
- E' tardi, devo andare.
- ...e va bene: quindici. Ma rallenti.
- Per rallentare ce ne vogliono venti.
- Te ne do quindici e rallenti. Oppure lo dico a tua zia.
- Quindici. Affarefatto.

La Iris è mia cugina. E' la ragazza più bella del paese. Per me è solo mia cugina e non capisco perché tutti le muoiono dietro. Specialmente quando mette il profumo finto francese che puzza e mi rimane sulla camicia e poi gli amici mi dicono che sembro finocchio.
Però mia zia mi chiede di accompagnarla quando fa la passeggiata del pomeriggio. La devo accompagnare fino al "Sali e Tabacchi" e non oltre. La devo accompagnare perché ha tanti corteggiatori e non si deve pensare male. Allora hanno iniziato a prendermi da parte.

- Falla passare davanti al biliardo.
- Non si può. E' dopo il "Sali e Tabacchi": non si può.
- Allora davanti la Sezione.
- Ci stanno i comunisti. Non si può. Zia non vuole.
- Allora davanti al bar di Meco.
- E te che mi dai?

Io l'ho chiesto per scherzo. Un riflesso condizionato come quando sono in piazza e facciamo gli scambi. Io sono bravo agli scambi.

- Ti do 5 lire.
- Niente soldi ché poi babbo mi chiede dove li ho presi.
- Ti piacciono i pescetti?
- 'cci...
- Allora cinque pescetti se fai passare la Iris davanti al bar di Meco.
- Affarefatto.

Poi ho capito che quelli avrebbero pagato pure oro per veder passare la Iris. E ho alzato un po'. Si fa così. Io sono bravo agli scambi. Ora contratto per un quarto d'ora. Stanno tutti attorno e vince chi offre più pescetti. Di solito vince Mario, che è il figlio del fioraio davanti al camposanto e ha un sacco di soldi. Per l'extra chiedo di più. L'extra è quando dicono: "però rallenti". Devo trovare una scusa qualunque, così Iris cammina piano e loro possono cercare il coraggio per chiederle di andare a ballare. Io agli scambi sono bravo, ma di andare a ballare a una donna non glielo chiederò mai. E' troppo. Certi ragazzotti sbruffoni pezzi d'uomini che iniziano a sudare, guardano per terra, si lisciano i pantaloni e balbettano. Solo Samuele c'è riuscito e Iris dopo mi ha detto: "Vedi? Quello sembra il più fesso di tutti e invece è l'unico buono. E' l'unico gentile in mezzo a tutti quei senza cuore". A me Samuele sembra solo fesso, però probabilmente c'è qualcosa che non ho capito.
La Iris invece ha capito benissimo il mio 'commercio'. Fa finta di niente anche quando invento le scuse per farla rallentare. "Iris, ma hanno cambiato le decorazioni per la festa delle contrade?". Lei mi sorride, guarda in alto, le osserva a lungo anche se le conosce a memoria e dice: "No, mi sembrano sempre le stesse". Intanto sbircia dietro, come volesse assicurarsi che la guardino, ma senza esagerare. E che mi abbiano dato il giusto numero di pescetti. Ché corteggiare è una cosa fatta di coraggio, pescetti e di buone maniere. Alla Iris le piace Marcello Mastroianni, che è un attore famoso e fuma con la sigaretta appesa e c'ha uno sguardo che sembra sempre che si è svegliato da poco. Allora tutti i ragazzi hanno iniziato a fumare con la sigaretta appesa e lo sguardo da sonno. Stanno tutti lì al Corso Vecchio e sembrano tutti mezzi attori. Nessuno somiglia a Mastroianni tranne forse un po' Samuele. Mi sa che davvero c'è qualcosa che non ho capito.
In realtà io di ballare c'è una donna a cui lo chiederei. Si chiama Fiorella e ha un anno più di me. Però non possiamo mica andare a ballare in mezzo ai grandi quando c'è la musica e tutti si muovono velocissimi. Metti che inciampiamo o ci perdiamo oppure mi vede il babbo di Fiorella e mi piglia per un orecchio? Allora ho pensato che le chiedo di ballare appena si può. Intanto imparo come si invita e pure qualche passo di danza. Così poi faccio bella figura.

L'altro giorno c'era il cinema in piazza. Che è una cosa bellissima perché montano il telo bianco grande circa cinque volte un lenzuolo matrimoniale, aprono la scatola del proiettore e poi mettono una cosa che si chiama 'pizza', che è il nastro con le immagini. Il film, 'manco a dirlo, era un film con Marcello Mastroianni. Io mi sono seduto dove potevo seguire bene la storia, ma anche vedere Fiorella così capivo se le piaceva Mastroianni pure a lei e mi regolavo di conseguenza. Intanto mangiavo i pescetti di liquirizia. A un certo punto è arrivato Gianni che è un corteggiatore di Iris un po' agitato. Aveva bevuto parecchio e ha cominciato a tirare sassi che bucavano il telo con le immagini e a urlare "Mastroianni ti ammazzo! La Iris è solo mia". Io ho guardato Fiorella che si era spaventata e ho smesso di mangiare i pescetti.

Monday, October 08, 2007

Electrocute(d)




"Adesso ti faccio vedere una cosa" mi dice. "Però devi promettermi che non la farai mai e poi mai da solo. E' pericoloso".
"Se è pericoloso", le dico "è pericoloso anche per te".
"Sì, ma in due stiamo più attenti. In due, se a uno capita qualcosa, l'altro può avvertire qualcuno".
"Che cavolata", le dico.
"Sta' zitto e seguimi".
Piove tantissimo. Io non ho mai visto un'ostinazione come la sua per le pozze d'acqua. Entrare in una è divertente. La seconda regala ancora una certa euforia. Mirare alla terza è ormai una sfida ai calzini umidi. Per continuare bisogna avere proprio una fissazione particolare. Comunque. Piove tantissimo quando scendiamo dall'autobus.
"Ma i compiti non li facciamo?", le chiedo.
"Dopo. Ora promettimi che non farai mai da solo quello che sto per farti vedere".
"Prometto".
"Prometti per davvero".
"Occhei, prometto".
"Sulla testa di Carlotta".
"Carlotta mi piaceva l'anno scorso".
"Prometti sulla sua testa ché tanto se dici una bugia e le capita qualcosa mi sta antipatica".
Prometto. Siamo sul prato davanti all'ospedale di quelli che muoiono per finta. Quelli che muoiono per finta hanno delle malattie segrete che quando arriva il medico non gliele spiega neanche. Gli dice: avete una malattia che noi ci capiamo poco e niente, ma voi a un certo punto morite e quindi vi mettiamo qui che così non lo dovete spiegare a nessuno. Non siete obbligati. Come quando uno è triste e gli fanno un sacco di domande e quello dovrebbe spiegare una specie di malattia invisibile e allora si confonde e dice: "Non lo so". Sul prato c'è un cartello giallo. Basso, con scritto: "A 1m di profondità, cavi ad alta tensione". Io le urlo:
"Che vuoi fare? Guarda che saltiamo per aria. Te sei matta qua ci ammazziamo, ci friggiamo come le zanzare nelle luci blu".
"So quello che faccio", mi risponde. "Fidati: so quello che faccio. Zitto e aiutami".
Così cominciamo a scavare sotto la pioggia. Piccole buche come quando si semina. Sceglie il punto, io affondo l'indice nella terra zuppa bagnata e lei spinge dentro una cosa che non riesco a vedere. In superficie rimane solo un filo. Un filo della corrente con la gomma rossa che unisce tutte le cose che non riesco a vedere, sotterrate nel fango. Dall'altro lato del parco c'è un bar come quelli americani dei film. Quelli aperti anche di notte. Quelli in cui sembra non ci sia nessuno e invece entri e c'è sempre una persona che non avevi notato che sta lì con la testa un po' inclinata su una tazza che fuma e quando ci passi vicino per andare in bagno scopri che è vuota. Vuota e ancora bollente. La ragazza al bancone ci guarda senza fare nulla. Non avviserà nessuno. Non chiamerà la polizia né le guardie giurate: nessuno. Non farà nulla perché lavora al bar davanti l'ospedale di quelli che muoiono per finta e anche se fossimo in serio pericolo, per lei la vita ha un significato diverso. Ha un significato per finta e quindi non c'è da preoccuparsi. Quando finiamo di interrare tutto, ci sistemiamo sotto la tettoia. Lei tiene il filo elettrico nella mano e cerca un accendino nella tasca.
"Non farlo mai e poi mai da solo, occhei?".
"Sì, sì, te l'ho promesso".
"Carlotta è un cesso con lo sguardo da pesce, comunque".
"Non è vero, ma non mi piace più".
"Cretino. Guarda".
Avvicina la fiamma al filo che inizia a sfrigolare. La pioggia smette di cadere.
"Siamo fortunati. Ora osserva attentamente".
Quando il fuoco raggiunge il primo buco, c'è una piccola esplosione. Precisa e contenuta. Uno sbuffo di terra e l'erba attorno che si copre di una patina bluastra. Un crepitio che si diffonde come i cerchi nell'acqua. Man mano che i buchi esplodono, tutto il prato diventa un lago di corrente che si spande nervosa e fa tremolare la vista. Qualche residuo di mortaretto riprende a scoppiettare, c'è un suono di carta da regalo appallottolata. "E' bellissimo", riesco appena a dire. Lei sorride soddisfatta. Io penso a tutta l'alta tensione dei cavi a un metro di profondità che rispondono alle piccole detonazioni e rilasciano corrente e mi bruciano gli occhi: forse mi sta venendo la febbre, forse domani mi ammalo e non devo fare i compiti. Lei si avvicina, avvicina la bocca al mio orecchio umido e dice con la voce che ha le gocce d'acqua sulle labbra dice qualcosa e io esplodo con tutta l'elettricità al sicuro sotto la tettoia del bar dell'ospedale dove la gente muore per finta.

Monday, September 24, 2007

May Day


C'è un giorno che inizia. Un giorno che si separa dal sonno con la cautela di una decalcomania, lasciando particelle di inchiostro impresse organizzate in segni. Segni che affioreranno durante il resto del giorno che inizia con i secondi e minuti che girano mescolati in senso orario. Tanti piccoli gorghi che collassano e, stondando fra loro, stabiliscono quando è il momento di cominciare a prendere il tempo sul serio.
Noi non ci siamo salvati. Non ci abbiamo neanche provato. E non abbiamo vinto né perso. Non abbiamo fatto altro che travasare la sabbia da palmo a palmo fino ad accorgerci che in quel gesto c'era qualcosa che andava via e ci sembrava fosse nostro ed era invece quel fatto spietato e incredibile dei giorni che iniziano e ci sono valigie da riempire stipandole con la geometria necessaria quando non puoi tornare indietro a prendere qualcosa che hai dimenticato. Noi non ci siamo salvati perché ci pareva di affondare più veloce degli altri ed erano solo i sassi nelle tasche che avremmo poi svuotato, divertiti dal rumore dell'acqua che li inghiottiva. Bocconi amari e giganti che schioccavano contro il palato e finalmente poi in gola e più giù fino al buio definitivo di un fondale che non ha mai visto galeoni né carcasse di illusioni.
Noi non ci siamo salvati. Ci siamo persi e poi chiamati come ponti radio d'aiuto tra due luoghi in cui nascono segnali deboli ma ostinati. Segnali che non accettano di cambiare frequenze e aspettano aspettano e aspettano che le onde entrino in sintonia, che la voce, gracchiando, agganci il segnale e -finalmente- risponda. Nel frattempo non ci siamo salvati. Ci sono stati naufragi e smarrimenti, coste invitanti con gli scogli appena sotto la superficie dell'acqua, piattaforme perse nella loro solitudine artificiale e persino altre imbarcazioni sperdute come la nostra, ma piene di provviste e barili stracolmi: privi di destinazione e buoni da consumare.
Quand'è stata l'ultima volta che ho visto un giorno iniziare?
Noi non ci siamo salvati anche se abbiamo tenuto decine di rotte diverse nella speranza di arrivare almeno al termine di una. Quanto è stato strano scoprire che bisognava procedere in circolo, riaffascinarsi agli specchi d'acqua e a quello che passa e diventa altro ad ogni giro. Trasformarsi. Non chiedersi dov'era il varco che ci avrebbe portati in salvo, smettere di cercare di fermarlo tra un elenco di possibilità che frullano come tabelloni degli arrivi e partenze. Smetterla. Sedersi stanchi e guardare appena più in basso e in qualche modo indietro, passare più volte l'indice sulla superficie nuova di un braccio appena guarito e ridere della propria preoccupazione di non riaverlo mai più.
Noi non ci siamo salvati. Non abbiamo vinto e non abbiamo perso.
Quand'è stata l'ultima volta che ho respirato?
C'è un giorno che inizia scollando tutti i manifesti di una stagione passata ad evitare sguardi e incontri. C'è chi già incolla nuovi inviti e nuovi appuntamenti da non disattendere con un piacere in più. Uno strato di voglia aggiunto e sguardi lanciati come il filo per i panni stesi da una finestra all'altra: qualcun'altro guarderà in su e a qualcos'altro guarderemo.
'Stavolta, camminando. Senza aspettare di essere salvi mai.

Sunday, September 09, 2007

32123..



Io sono abituato a contare al contrario. Intuire la durata delle cose, associargli una cifra e poi cadenzare i numeri a ritroso. E' come attribuire una data di scadenza. Riuscire a stabilire il decadimento, la dinamica dell'asfissia. Ci sono indizi da indagare. Dettagli a cui guardare per pronosticare con maggiore esattezza. Uno di questi è il respiro iniziale. L'immissione dell'aria che ossigena le prospettive. L'ottimismo del trasporto. Quello che tutto e tutti sembrano ignorare travolti dall'impatto della novità. Del cominciare. Io misuro quel respiro come avessi uno spirometro piantato negli occhi e ipotizzo un numero. Da lì, procedo al contrario. Conto il tempo scandendo unità di secondi decrescenti e guardo il mondo di quella promessa collassare man mano che le cifre si assottigliano. Un altro indicatore efficiente è l'attitudine all'autodistruzione. Potrà sembrare strano ai più, ma molti oggetti hanno la singolare tendenza ad accelerare il proprio decadimento quando superano una certa soglia di mantenimento. La loro natura riceve un colpo: un colpo autoinferto. Diventano consapevoli della loro precarietà, diventano consapevoli di quanto sono stati presuntuosi nella loro indifferenza verso chi li ha resi tali o nei confronti di chi li ha fatti esistere regalandogli un valore aggiunto. A quel punto inizia l0 smantellamento. Perdono smalto e attrattiva. Si coprono più facilmente di polvere e intraprendono una lotta patetica contro il finale che loro stessi hanno suggerito. Succede anche alle persone, ma è un processo più raffinato. O più caotico. Dipende dal livello di autostima. Io, intanto, sono lì che conto. Sciorino numeri. Mantengo la stessa velocità anche quando il processo sembra affrettarsi o incagliarsi contro qualche escamotage. Mantengo la stessa velocità perché so che mi raggiungerà o rallenterà, aspettandomi. La durata a volte è sul fondo della confezione. Altre in cima. O scritta in caratteri minuscoli dopo la lista degli ingredienti. In bella evidenza se la spavalderia del pessimismo illude chi produce. La durata è sempre 'consigliata'. Ma tutto quello che la segue ha un sapore consunto di decadimento protratto e -credetemi- non c'è niente di più nauseante del gusto di una scadenza procrastinata. Non è un'abitudine allegra, la mia. Ne sono la prima vittima e l'ultimo ad ottenere un riconoscimento. A cosa mi serve saperlo? A nulla. Non cerco la conferma del dopo, mi piacerebbe la rassicurazione del prima. E' solo qualcosa che capisco e che registro in maniera convulsa. Come quei piccoli autismi legati a mattonelle sul pavimento e linee da un punto all'altro. Non cerco di indovinare un ordine generale. Non c'è e non c'è mai stato. C'è invece un ordine piccolo e strutturato all'interno di mondi ancora più piccoli e strutturati. La cui noia è direttamente proporzionale alle dimensioni degli inganni perpetrati al fine di sfuggire allo zero definitivo. Tutto il resto è improvvisazione. E necessita che quelli come me, quelli che conoscono la cifra iniziale, siano tenuti cautelativamente alla larga. Io sono abituato eppure le abitudini si possono sbriciolare. Come residui di biscotto sotto la scarpa. Come la sabbia cristallizzata dal freddo della notte precedente. Solo, ci vuole più tempo. Sicuro c'era una scadenza anche per questo. Anche per me. Devo averla tralasciata. Devo essermi distratto. Devo aver perso di vista il conteggio perché partiva da una cifra troppo elevata. Millemilioni di zeri a seguire. Uno solo a cui arrivare. Quello di stamattina. Questa mattina in cui tutto procede al contrario e il giorno corre in avanti e i passi sono una successione: non una sottrazione alla distanza già calcolata. Questa mattina in cui la mia abitudine è schiantata un millimetro alla volta contro quanto ho già fatto e quello che c'è da fare che ancora non conosco ma voglio. Questa mattina in cui esco di casa e non so quando sarà il momento di ripetere gli stessi gesti al contrario. Non inizio nessun conto alla rovescia. Cammino -anzi- numerando i passi in avanti.
Uno, due, tre...

Sunday, August 26, 2007

Crono deragliatore



Mio nonno di secondo mestiere incantava gli orologi.
Non è che li ipnotizzasse, lui li bloccava proprio. La dicitura che aveva inventato era "Cronoderagliatore". Sosteneva che un'attività, quale che fosse, dovesse avere un titolo preciso. Un nome che la identificasse: altisonante il giusto, professionale, da apporre su una targa o un cartello qualora necessari. Il secondo mestiere di mio nonno -quindi- era "Cronoderagliatore". Il primo non aveva nulla a che fare con gli orologi. Col tempo -forse- un po'. Mio nonno di primo mestiere faceva il telegrafista. Picchiettava messaggi a puntolinea. Aveva imparato sotto le armi. Durante la Seconda Guerra. Poi era passato al servizio dei postelegrafonici. Quando era molto nervoso o triste, iniziava a tamburellare ritmicamente su una superficie piana o sulla gamba. Telegrafava il suo sconforto. Imparai il Codice Morse per capire cosa raccontasse al suo immaginario ricevitore, ma i suoi battiti erano troppo veloci e persi presto ogni speranza di esaudire la mia curiosità.
Di secondo mestiere invece mio nonno faceva il Cronoderagliatore. Iniziò la sua professione con una pendola, in casa. Non lo infastidivano tanto i rintocchi quanto l'evidenza di quello scorrere. Un pomeriggio lo vidi ricavare uno spessore di cartone dalla scatola di un medicinale. Aprì lo sportello e bloccò il meccanismo. Gli occhi gli brillavano. Fissava le lancette con una soddisfazione palese. Da qualche parte il tempo scorreva ancora: non lì.
Giorno dopo giorno, sabotò tutti gli orologi nell'appartamento. Al suo entusiasmo non sfuggì neanche un vecchissimo cucù: rivoltante regalo di nozze che lasciava appeso solo per la gioia di noi nipoti. Per gli orologi elettrici, usava la colla. Ne aveva smontato uno, per studiarne il meccanismo. Una volta richiuso, lo aveva bloccato sulle 14 e 32. Avrebbe potuto semplicemente rimuovere le batterie o romperlo. L'idea però, era che l'orologio continuasse a funzionare, venendo inibito a proseguire la corsa. Come in un'eterna paralisi temporale. Ormai, quando andavo a trovarlo, dovevo tenere il tasca il mio, sicuro che rischiasse la fine degli altri. Era bello sedere uno di fianco all'altro. Guardare la pendola del salone, con l'impressione di vedere le lancette costrette a una microscopica, stremante oscillazione sul posto. La voce si sparse. Mio nonno aveva una serie di abitudini alle quali non rinunciava mai. Una di queste era il giro mattutino del quartiere. Edicola, forno, vineria, negozio di sementi per i suoi canarini e qualche chiacchiera con altri pensionati, schivando il pallone di alcuni miei -allora- maleducatissimi coetanei. Farsi pubblicità gli riuscì facilmente. Superati i sessantacinque anni, tutti quegli anziani cercavano di evitare di pensare al tempo con risultati molto più che disastrosi. L'idea di mio nonno sembrò a tutti una vera liberazione. La casa si riempì di orologi. Molti dei 'clienti' non riuscivano neanche a pronunciare la parola "Cronoderagliatore", cosa che faceva innervosire mio nonno e il suo dito lungo la gamba. Non era puntiglioso: ci teneva. Ecco. Era una di quelle persone che 'ci tengono'. Offriva sempre il caffé a chiunque gli portava del lavoro. Lo preparava con la 'Napoletana'. Usava il metodo del beccuccio, canonizzato dalle commedie di Eduardo. Questo gli conferiva un'aria ulteriormente capace agli occhi di tutti quegli attempati romani che si limitavano a piazzare la moka sul fuoco. Mio nonno ha deragliato orologi finché è campato. Una volta, mentre apparecchiavamo la tavola (un altro dei riti che gli piaceva condividere con me), gli ho chiesto perché lo faceva. Avevo capito il suo fastidio, ma mi sfuggiva la ragione profonda. La sua. Gliel'ho domandato piano, con la paura di togliere poesia a quel gesto, a quella sua seconda attività seguita con tanta passione. Mi ha risposto che così uno era più libero quando si trattava di scegliere. Che poteva scegliere tutta la vita.

Thursday, August 16, 2007

Dìllo




Di quell'estate non abbiamo foto. Dillo era troppo piccolo per interessarsi a obiettivi e inquadrature e io finivo sempre per dimenticare a casa la Kodak ricevuta in regalo per la Prima Comunione. Conserviamo memorie sbrindellate, che periodicamente riportiamo in vita alla fine dei pochi pranzi in famiglia, quando è il momento del caffè. Seguiamo con un dito i quadri della tovaglia ormai sottile, mentre cerchiamo di aggiungere reciprocamente dettagli a quello che ancora resiste agli anni. Ne sono passati più di venti. Tra noi, sempre gli stessi tre di differenza.
La prima cosa che ricordo sono le parole. Ricordo che erano materiale duttile, piegate alla nostra penuria di esperienza: servivano da rinforzo quando non sapevamo quantificare l'intensità dell'accaduto o quando i fatti ci lasciavano addosso uno stupore che scartavetrava la spina dorsale. Ricordo che osservavamo rami intrecciati chiedendoci dove fosse il confine nodoso di ciascuno e quell'unico groviglio ci faceva esclamare: "Si trasformano!", come a testimoniare frustrati una nuova -terza- intricata entità. Sbirillo era la risata gorgogliante delle compagne di classe, Palude il guazzo statico e melmoso che galleggiava in pancia durante un rimprovero. Parole. Quell'estate i genitori erano sagome lontane. Voci, in prevalenza. Richiami legati a doppio filo alle uniche ore che ci interessavano sul quadrante dell'orologio della cucina: colazionepranzocena e il riposo del primo pomeriggio. Non ricordo il volto di nostra madre né quello di nostro padre. Tanto meno se erano giovani. Sforzandomi molto, filtrano appena degli odori. Odori che nessuno dei due ha avuto mai più e che ogni tanto esalano gli album di fotografie. Entrambi erano così distanti che i segreti di quell'estate sono potuti rimanere tali. Doppia mandata e chiave inghiottita.
Dillo è il soprannome di mio fratello. Non saprei dire quando abbiamo iniziato a chiamarlo così: come un imperativo. Come l'imperativo sentito chissà dove che ripeteva ostinatamente quando, ancora prima di camminare con la dovuta padronanza, si aggrappava ai passi di mia madre: "Dillo, dillo!". Non ha mai ricevuto risposta e forse avremmo dovuto chiedergli l'origine della domanda.
Rifugio e sede di sperimentazioni erano i pilastri appena eretti di una casa in costruzione. In attesa di essere terminata in settembre, dopo le vacanze, ci accoglieva grigiocemento ogni pomeriggio. Due piani tirati su in fretta, la spartana e funzionale edilizia degli anni ottanta: qualche tubo di plastica fuoriusciva dalle pareti come i condotti divelti di un'operazione abbandonata col paziente ancora palpitante. Tentavamo di comunicare da un piano all'altro attraverso quelle vene zigrinate. La voce ne usciva debole e attutita. Bisbigliavamo per non influenzare la riuscita del tentativo: per non confondere il suono amplificato dai vani vuoti con quello che effettivamente si propagava nella circonferenza al gusto di calcinacci. Al pianterrreno una betoniera era -nelle nostre intenzioni- il cannone dal quale i curiosi si sarebbero allontanati. Non accettavamo intrusi: non avremmo fatto prigionieri.
Dillo aveva scoperto un varco in quella che sarebbe diventata la parete della cucina. Un'intercapedine non ancora riempita con i tubi del gas. L'accesso mi era impossibile: le braccia e le gambe avevano già iniziato la corsa verso il metroeottantadue, le spalle risentivano dello sviluppo che in quegli anni scombussolava regolarmente ogni mia estate. Dillo invece era ancora minuto, sufficientemente piccolo per intrufolarsi, sbreccando appena la muratura friabile attorno allo squarcio. Avevamo trovato un nome anche per quell'angusta ispezione.
Era il Parlaio: una sorta di confessionale al contrario. L'opposto di quello che ci raggelava quando ci passavamo accanto in chiesa. Rallentavamo davanti alle persone inginocchiate di fianco a una celletta impenetrabile. Rallentavamo nella speranza di carpire qualche increscioso mistero. Io non avevo avuto il permesso di utilizzare quello spazio per la Confessione. Avevo sciorinato i miei peccati seduto su una panca, accanto al prete che annuiva, sorridendo di quanto avevo palesemente inventato. Ma sapevo che c'era chi non avrebbe dovuto far ricorso alla fantasia e -scomodo sulle ginocchia- avrebbe anzi tentato di sottrarre anziché aggiungere. I bisbigli erano fioche alitate sulla grata. Ci arrivavano solo sbuffi di parole. Dulterio era una di queste. Indagai per mesi la lettera 'D' sul vocabolario. Ovviamente invano. Risolsi che doveva essere un peccato nuovo, di recente invenzione e perversione. Risi moltissimo quando l'anno successivo trovai il coraggio di chiedere a mio padre la spiegazione. Risi perché per me tradire era ancora un fatto di segreti e non di desiderio incerto. Dillo entrava nell'intercapedine e iniziava a ripetere: "Mi senti? Senti quello che dico? Bussa sul muro, se senti!". Questa era la regola. Lui poteva parlare, io no. Lui era protetto, lì dentro. Io no. Lui sarebbe uscito e non ci saremmo detti nulla. Mai più nulla al riguardo. Il Parlaio esisteva attraverso le sue regole e noi le rispettavamo. Dillo raccontava i suoi pensieri peggiori. Paure evanescenti, come se ne hanno solo a quell'età. Paure che ti strizzano il fondo dei pantaloni e spariscono con una dormita. Paure di cui non hai memoria fino a quando le rievochi anni dopo, quando ti sembrano giustificazioni a terrori più grandi che invece hai covato e coccolato e cresciuto in un'abbondanza di cui puoi solo maledirti. Io, come convenuto, ascoltavo in silenzio e soffocavo ogni istinto pedagogico guardando gli spazi squadrati per gli infissi delle finestre. Sentivo di volere bene a Dillo e ne invidiavo bonariamente l'ingenuità. Da tempo non c'erano più mostri sotto il mio letto. Solo il disordine che nascondevo ai nostri genitori.
Finché un giorno Dillo iniziò il gioco del Parlaio con un silenzio più lungo del solito. Grattai debolmente contro la parete ("Ci sei?") e sentii solo il suo respiro più veloce. O almeno mi sembrò di sentirlo, nel tentativo di rassicurarmi.
"C'è una cosa...".
Parlava come se incamerasse l'aria, invece di mandarla a sbattere contro denti e lingua.
"C'è una cosa qui dentro".
Io continuai a non parlare per non interrompere lui né la regola che ci eravamo dati.
"C'è una cosa molla".
Pensai inizialmente -chissà perché- pensai all'ennesimo termine inventato. Molla poteva significare altro. Magari una variante della Palude. Il nome dato a una nuova paura. Dillo continuò:
"C'è una cosa molla piccola che fa puzza".
D'istinto introdussi la mano nell'intercapedine. Volevo che Dillo l'afferrasse, volevo aiutarlo ad uscire: mi sembrava terrorizzato. Non potevo parlare ma potevo muovermi e introdussi il braccio fino al gomito. Sentii un odore forte, avvicinandomi. Un odore acido, come di latte appena cagliato e forte di selvatico. Tastavo a caso, più per farmi sentire da Dillo che per trovarlo. Doveva essersi rintanato in fondo, perché non riuscivo a urtare neanche i suoi piedi smanacciando sul pavimento. La sua mano prese la mia. Da sopra. E la condusse lentamente verso il basso. Sotto il palmo premeva una massa appena pelosa, molla. Indovinai la testa e il corpo del cucciolo di un gatto. Doveva essere stato appena partorito. Attorno c'era del liquido. Mi avevano accennato l'abbandono dei cuccioli fuori dalla portata dell'allattamento. Mi era parsa una cosa spietata, ma lontana. Una sorta di nefandezza da televisione. Troppo al di là di ogni esperienza reale. Afferrai la mano di Dillo e lo trascinai fuori. Appena riabituò lo sguardo alla luce, iniziò a piagnucolare. Singulti potenti che lo scrollavano. Misi la mano sulla sua testa: era bollente. "Dillo..."
"L'ho ucciso io. Ho parlato dei miei mostri, li ho fatti uscire fuori e lo hanno ucciso...".
"E' solo un gatto, Dillo. Vieni via.".


Wednesday, July 25, 2007

Vertigine






Avessi potuto, quella lettera non l'avrei mai scritta. Sogno spesso, da allora, le singole parole che si cancellano sotto i tuoi occhi: consumate prima di essere lette, spariscono nella tua ansia di ricevere una spiegazione. Vorrei dirti una cosa. Dirti di tenerla come un segreto perché questo è: un segreto che ti svelo proprio adesso che sul ponte della nave guardo in giù e sei l'unico a non agitare un fazzoletto bianco. L'unico che non spera in un ritorno.
Hai una maniera sciocca di chiedermi le mie ragioni. Inizi le frasi con i 'perché', mentre dovresti affidarti agli 'affinché'. Parto non perché io lo voglia o perché voglio interporre il gusto della distanza. Parto affinché tu impari a desiderare questo viaggio per me, affinché tu conosca il gusto della mia distanza. Il sapore che avrò quando sarò lontana.
Sorrido di tutti i bagagli che ho visto imbarcare. Valigie affastellate in piramidi precarie, legate con corde che scricchiolano. Sorrido di chi cerca di portare con sé la maggiore quantità possibile di passato. Il mio ingombro è minimo anche se non è affatto minimo quello che conservo. Ma stipo i ricordi in modo differente, li avvoltolo sottopelle, come se gli incavi dei gomiti o le rughe d'espressione avessero un doppio fondo. E' comodo e pratico ed è più doloroso perché meno visibile. Meno ingombrante agli occhi. Più pesante immediatamente dietro le palpebre.
Il segreto che ti svelo proprio adesso, adesso che questa nave enorme salpa e i boccaporti vengono chiusi e i ciminieri rombano impazienti, è tutto nel vedermi appesa alla ringhiera bianca. Vedermi indistinta eppure così ben delineata tra la confusione di una folla di promesse messe sull'acqua a decine di metri dal più remoto dubbio di affogare. Il segreto non è in quella lettera nella tasca dei tuoi pantaloni, non è nel saluto sbrigativo che ti ho dato. Il segreto -ti stupirà- non è neanche nella calma che ostento, concentrata nelle nocche delle mani che sbiancano mentre stritolano la ringhiera. Il segreto è la vertigine che mi dà guardarti da quassù mentre la chiglia si separa dal molo, la stessa vertigine che immagino provochi il vedermi allontanare e assumere le dimensioni di qualcosa che potresti tenere in una mano. Eppure parto e non c'è mano né promessa. C'è una leggera vertigine, che richiamo al mio equilibrio, pensandoti distante.



[Vertigo]

Wednesday, July 18, 2007

En Garde




Il rumore è un tonfo. Una serie di tonfi, per l'esattezza. Pieni e sordi come manate su un materasso a cavalcioni della ringhiera di un balcone. Manate nervose, a un millimetro dallo sfogo.
Tunf... Tu-tunf... ... ... Tunf
.
Manate che seguono figure ritmiche intraducibili. Singhiozzano la loro cadenza con un'eleganza che perfino l'orecchio riesce a percepire.
Lo sguardo, al momento, è occupato da due occhi che fissano il centro esatto dei miei in attesa di una risposta. Riflesso condizionato: cerco con la mano tra i capelli nella speranza di diminuire la tensione; ravvivando l'utopia di scoprire parole rimaste impigliate. Ritiro la mano disperatamente vuota.
Una palestra dove si pratica la scherma è un luogo fatto principalmente da due elementi dominanti che diventa difficile distinguere. Il bianco delle divise e il tonfo dei movimenti sulle pedane. Un colpo d'occhio sonoro. Lei viene ad allenarsi qui da quando era molto piccola. Nessuna ambizione agonistica. Solo un amore tramandato, sconfinato e incrollabile per la precisione. La fluidità impeccabile dei movimenti.
"Te ne sei andato. An-da-to." ripete il participio sillabando. Infonde tutto l'amaro distillato dall'ironia nella parola e la infiocchetta con un sorriso obliquo che spegne immediatamente continuando: "Ma perché lasciare che ti trovassi di nuovo? Peggio. Perché lasciare tracce ovunque?" Perché? Perché l'uomo non è capace di muoversi infallibilmente neppure nella sua solitudine? Perché siamo destinati a disseminare pezzi di noi alla minima interazione con la nostra quotidianità? Già: perché?
"Ovunque!" ripete ancora come se volesse spiattellare qui ed ora l'elenco delle mie involontarie azioni. Fortunatamente si accontenta di quell' ovunque. Onnicomprensivo quanto basta. "Perché?"
Già. Perché? Cerco ispirazione tra i duelli in corso. Mi fisso su un allenamento di fioretto. La sagoma sulla sinistra sta portando fraseggi di affondi continui e metodici. Diresti che il bottone in cima all'arma ne sta premendo altri, come componesse un numero telefonico che ha già digitato mille volte sulla tastiera. Sferra l'attacco e non aspetta neanche di sentire il segnale di 'libero' per preparare il successivo. Sembra più un esercizio di impazienza. Anche se dubito ci sia qualcuno disposto a rispondere all'altro capo della cornetta. Infatti lo schermidore sulla destra si difende come può. Para ogni stoccata con una sollecitudine evidente nei gomiti che si distendono e angolano istericamente. Qualche centimetro più in basso, i colpi dei piedi sulla pedana.
Tunf...Tu-tu-tutunf...
Inizio la solfa delle giustificazioni. Quelle non richieste, quelle che non dovrebbero essere presentate. Come fossi mancato a scuola il giorno di festa. Eppure è una presenza che mi si sta imputando. Eppure lei legge e firma. Legge e firma voltando lo sguardo furiosa ad ogni motivo che provo a ricondurre per il mio essere stato presente. 'Presente ingiustificato': questa, davvero, mi mancava.
Commetto un secondo errore. Commetto il secondo errore quando le retrovie del mio cervello stanno già abbondantemente perdendo la pazienza e iniziano a porsi l'unica ragionevole domanda: chi diavolo me lo ha fatto fare? Commetto il secondo errore, scivolando sull'ovvio. Inizio a dare spiegazioni circostanziate. E siccome si sta parlando di qualcosa che non ho commesso deliberatamente, che non sapevo neanche di aver fatto, confondo i ricordi e mi contraddico. Slitto tremolante sulla mia stessa difesa.
La sagoma sulla destra è più esausta di me. Leggo la stanchezza nel portamento. La testa sotto la maschera protettiva abbandona progressivamente la fierezza perpendicolare. Il polso è legnoso. Il gomito tentenna un istante di troppo prima di riportare il braccio in posizione. Ed è allora che lo schermidore di sinistra sente. Quell'elettricità nell'ossigeno che probabilmente ha raggiunto il livello minimo. Sente, ma sarebbe meglio dire che propriamente fiuta l'opportunità di chiudere. Di segnare l'ultimo punto e porre fine a quella resistenza concentrata ma esanime.
"Smettila, per favore. Smettila. Ti rendi conto di come posso essermi sentita? Di cosa ha significato per me?"
Quasi mi lascio scappare un urlo. Due brevi scricchiolii sulla pedana e la sagoma di sinistra, intuendo un varco, si distende. La silhouette bianca, tesa, in cerca del contatto definitivo tra il suo prolungamento e il busto dell'avversario. Non vedo i suoi occhi ma percepisco distintamente il brivido dato dal vuoto. L'espressione che avvampa automaticamente in viso quando la nostra mente è già proiettata all'effetto di una causa che ha preteso di prevedere. E' a quel punto che la sagoma di destra scarta impercettibilmente di lato. Forse è uno spostamento d'aria. Forse è la stanchezza estrema di un corpo che ha solo voglia di non essere più lì. Di fatto, la sagoma di sinistra manca il colpo. E quella di destra la raggiunge. Veloce come un'occasione di quelle che cogli più per istinto e autoconservazione piuttosto che abile tempismo. Eppure va a segno. Eppure vince l'incontro. Non aspetto di vedere i volti stravolti sotto le maschere. Torno ai due occhi che fissano il centro esatto dei miei. Fendo la domanda lasciata nello spazio che intercorre.
Sorrido spostandomi appena.
"Ciao"
ed esco.

Sunday, July 08, 2007

A Song (Almost) For No One (Yet)




Ho tanto di quel sonno da perdere, ma tu sembri volerne ancora di più.
Arrembi il mio letto, sollevi i miei polsi finché, come gocce, non ricadono giù.
Hai appena incontrato i miei incubi, mi mandano a dire che traslocano verso un cuscino migliore. Non credo gli piaccia il modo in cui mi guardi.
Non credo sopportino l'idea che tu mi possa conquistare.
"Sei sveglio?"
Stropiccio i capelli, infilo del blu all'incontrario e inciampo nel lato confuso di me.
Tu ridi e fai strada, io seguo in uno stormo di domande, in fuga dai dubbi dell'inverno:
in formazione verso il sud del mondo.
Prati di picnic infiniti lungo il cammino.
La distanza di sicurezza bruciata dai passi che accelerano
per sentire le tue luminose bugie da vicino.
Conosco questo posto, ma non te lo dirò. Gli cambiano nome e contorni eppure non basta:
eppure conserva l'odore teso di quello che forse accadrà. Di quello che resta.
L'odore degli istanti prima di un invito a ballare, l'aroma salmastro e tremolante del tuffo dallo scoglio più alto, la fragranza leggera e inquieta di quando ti svegli per primo, apri piano la porta e corri fuori a chiedere al cielo che intanto prende colore:
"Lasciami tutto questo. Lasciamelo. Almeno questo".
"Ti piace?" - domandi mentre il tuo sorriso danza.
Io spazzo trecentosessantagradi di stupore e non trovo un motivo per non essere qui.
Fino a rendermi conto che conosco questo posto perché ho promesso che ci sarei tornato.
L'ho promesso a me stesso.

Saturday, June 16, 2007

The Reflecting Pool


La luce mi pesa sulle spalle, sulle braccia, sul collo dei piedi dove la pelle è più sottile e tirata. Mi pesa la luce piena del primo pomeriggio, con il caldo propagato ovunque da un'umidità pesante che si scontra con il cloro, esalato dalla piscina come aria da un pallone sgonfio.
La luce mi pesa immobile come il caldo immobile, mi pesa come questo pensiero immobile che adagio sulla superficie dell'acqua come una coperta immobile, come quei teli che impediscono all'autunno e alle foglie di riempire la vasca vuota. Il vuoto non è immobile. L'acqua solo in apparenza. Il mio pensiero è immobile: combattuto tra l'umido di questo caldo immobile e il cloro che sfiata come un pallone che si sgonfia.
La luce e il caldo talmente ovunque che non trovo la direzione dei raggi. Non capisco dove potrebbero formarsi le ombre, dov'è la mia e quella di questo pensiero immobile. Serve un filtro a questo pensiero adagiato come una coperta sulla superficie dell'acqua. Frugo tra le foglie un metro alla mia sinistra, cercando il varco attraverso il quale tutto questo caldo, questa luce immobile e pesante si fanno strada a fatica, costretti ad attendere un infinitesimale cambio di direzione del vento per oltrepassare lo schermo verdescuro creato dai rami.
C'è un unico raggio che vince la resistenza impassibile. Un unico raggio filtrato che colpisce la porzione di sdraio dove, fossi orizzontale e priva del mio unico pensiero immobile, sarebbe il mio viso. Il mio viso senza alcuna protezione. Senza nessun filtro. Senza ombre. Un unico raggio che vince la resistenza impassibile delle foglie e -mi convinco immobile- con buone possibilità di debellare anche la mia.
Ma io sono seduta al bordo esatto della sdraio. Immobile -la sdraio- tra me che scombino la sua stasi surriscaldata e l'unico raggio che compensa all'altro estremo il concetto mai così relativo di 'equilibrio'. Alla mia destra il mio pensiero immobile, largo pochi necessari centimetri, tiene il baricentro di questo primo pomeriggio caldo sotto la luce pesante e immobile.
C'è un solo modo -mi dico- un unico modo per interrompere tutto questo, tutta l'immobilità di un ciclo asfissiato da un equilibrio precario, basato su strati di luce e umidità e cloro e sdraio che si fronteggiano impassibili dallo spazio rispettivamente occupato. Un unico modo che mi formicola sul collo del piede dove la pelle è più sottile e tirata e ora lievemente rossa di primo pomeriggio. C'è un unico modo e mi alzo e la sdraio, sbilanciata, disastra all'indietro. L'unico raggio filtrato zizgaga di ombre mai viste. L'umido e il cloro si mischiano irritati e spumano minuscole bolle di vapore, mentre il mio corpo distrugge l'immobilità dell'acqua e dell' unico immobile pensiero adagiato.



(In qualche modo a partire da: Anna)

Thursday, May 03, 2007

Equivociamici

"Uno per uno li ricorda
l'orchestra mentre si accorda
la verità viene sempre a palla
dolce chi era sei tu
"
(Equivoci Amici - Battisti / Panella)

Alla fine di ogni pomeriggio lui sale sul tetto del palazzo dove i ragazzini giocano un gioco complicato fatto di rimandi: lanciare il pallone più in là per vedere di quanto riesci a procrastinare il momento in cui finirai tutta la verdura nel piatto e ti accorgerai -oh, se te ne accorgerai- che non c'è certezza neanche davanti al coccio lustro tra due posate e un bicchiere. Il numero sul fondo, quello che appare nitido in rilievo sul vetro dopo aver bevuto, è invece quello della tua effettiva età. Allora, ora e per sempre.
Lui sale sul tetto del palazzo alla fine di ogni pomeriggio e prova a disorientare il suo intuito per il destino: riempie di nuovo il bicchiere così che l'acqua confonda le cifre sul fondo. Così che l'acqua àlteri la messa a fuoco del futuro di questi ragazzini impazienti di alzarsi da tavola. Non ci riesce. Il meccanismo non si inceppa e lui inizia a dedurre famiglie e difetti infiniti dalla maniera di portare il pallone. Attitudini e pretesti per guadagnarsi da vivere che emergono da come due gambe misurano i passi regolamentari per calciare il rigore dalla giusta distanza. Solitudini spaventose e cattive viste nella rassegnazione di chi rimane a bordo campo un secondo di più e si lascia affascinare dal panorama circostante un secondo di troppo.
E' proprio il ragazzino che rimane fuori dalla ressa attorno al pallone a chiedergli con la rapidità di uno schiaffo: "ma tu da piccolo com'eri?". Lui si accorge che non sa rispondere, non sa dare una risposta semplice e stupida come uno schiaffo di rimando: smanaccia due parole e fa un gesto con la mano che misura un'altezza livellata ai capelli sudaticci del ragazzino, come se i centimetri infilati in un paio di adidas sformate raccontassero poi qualcosa.
E quello che a un tratto realizza, quello che -oh, se te ne accorgerai- capisce è che le sue deduzioni non sono necessariamente un processo lineare che è possibile invertire. Realizza l'eventualità che quei gesti non corrispondano a un futuro, che non determinino affatto un futuro. Che il numero in rilievo sul fondo di un bicchiere è piuttosto magari invece la quantità di volte in cui avrà davvero la possibilità di dire "sì" o quelle in cui cambierà drasticamente opinione. Un numero vago e meravigliosamente approssimativo. Che non permette né permetterà a nessuno di sapere come era da piccolo senza -oh, se te ne accorgerai- chiederlo.
Non aspetta la risposta -quella vera- il ragazzino. Si scrolla sulle spalle la maglietta inumidita che inciampa su una taglia che cambierà nel giro di un anno, gli molla uno calcio insofferente e veloce e torna con gli altri. Lui si sente più stupido e felice.




(In qualche modo a partire da: Tabu)

Thursday, February 08, 2007

Fantasmi

Mai stato capace a disegnare, io. Sgorbi indicibili sul foglio: mostri sproporzionati, una natura distorta dalla congenita assenza di senso prospettico. Capelli come saggina in testa agli aborti di ritratti, mani enormi, occhi piccolissimi, braccia sghembe, montagne unite a ruscelli, alberi incastrati nel paesaggio impossibile di tramonti col sole infilato dentro tetti dall'assetto così assurdamente spiovente da far precipitare ogni rondine di ritorno al nido. Mai stato capace a disegnare, io. Sempre avuta l'idea in mente. Precisa. Un'armonia di forme tanto più frustrante quanto poco m'è sempre riuscito di raffigurarla. Ogni cosa al suo posto, smarrita nel passaggio dalla testa alla mano. Spesso spuntavo la grafite con quello schiocco secco che è più di una semplice resa. Il tracollo dell'immaginazione. Il bisogno di illustrare franava contro l'evidenza che anche dei pittogrammi rupestri sarebbero stati più efficaci. Mai stato capace a disegnare, io. Così ho imparato a ricalcare.
Si fa così.
Si prende un foglio sottile abbastanza da vederci appena attraverso e lo si sovrappone a quello che si vuole riprodurre. E' una sorta di piccolo plagio. Innocente. Ma funziona perché non devi seguire quello che hai davvero in mente. Devi solo passare la matita sulle linee che qualcun'altro ha già tracciato. Basta essere appena pazienti. E molto ostinati. Ci vuole l'ostinazione del pedissequo. Qualcuno ha tracciato il solco e tu ci ripassi dentro. Il fuori non deve interessarti. Fissi lo sguardo e ripassi. A volte puoi aiutarti con una finestra. Poggi entrambi i fogli sul vetro e la luce che viene dall'esterno rende tutto più chiaro. La traccia ancora più facile da seguire. Per alcuni brevi momenti provi anche l'ebbrezza di essere tu l'artefice di tanta maestria. Però non devi lasciarti distrarre. Perché ci vuole pazienza. Concentrazione. E ostinazione. Abnegazione: coercizione ostinata. E tu non sei l'autore. Tu non sai disegnare. Mai stato capace, tu.

Ché poi magari scopri che è una dote. Cioè, un qualcosa che ha pure un valore in sé. Proprio come i plagiari che poi diventano famosi perché riproducono talmente bene l'originale che tutti poi lo vogliono. Ché mica puoi chiedere a Van Gogh di rifare un quadro. Quello è morto e pure se fosse stato vivo ti avrebbe risposto che lui é un artista e mica può ripetersi come un ciclostile. Invece un plagiario il quadro te lo copia uguale quasi identico e c'è pure il plagiario più bravo di tutti che diventa famoso perché come rifà Van Gogh lui, nessuno. Insomma. Io ho scoperto che ricalcare è utile quando sono rientrato una volta in casa e ci ho trovato i fantasmi. Ora, questa cosa fa ridere se uno pensa che chi vede i fantasmi sia pazzo oppure fa paura se uno ai fantasmi ci crede e si immagina tutto un film dell'orrore. Il punto è che io non mi sono spaventato né tantomeno mi sono messo a ridere: ho solo pensato che io i fantasmi li dovevo cacciare. Ché mica potevano stare lì che ce li avevo davanti tutto il tempo. Oltretutto sono diversi dai fantasmi quelli iconografici. Innanzi tutto sono più piccoli. Grandi come una bambola, diciamo. Poi niente lenzulo o ectoplasma: hanno una forma precisa. Somigliano a delle persone, ma con meno dettagli. Come dei fumetti, più o meno. I fondamentali di una persona, ecco. Questa cosa dei fumetti mi ha fatto venire un'idea. Ho pensato che il fantasma vive fin tanto che non ha niente di corporeo. Vive in quanto fantasma perché non è concreto. Ma se io il fantasma lo avessi disegnato, avrebbe assunto una fisionomia. Sarebbe stato fissato su qualcosa di materiale come su un foglio. Certo, avrei potuto fargli anche una foto, ma la fotografia è una questione di luce e non avrebbe mai funzionato. Quindi ho pensato che avrei dovuto iniziare a disegnarli. Ma io a disegnare non sono capace. Allora mi sono ricordato di questa cosa del ricalcare e ho pensato: ora li ricalco. Sul muro. All'inizio non è stato semplice schiacciarli contro le pareti e passarci la matita preciso sopra. Scappavano e, quando finalmente riuscivo a prenderli, si agitavano come gli stessi facendo il solletico. Figurarsi, il solletico ai fantasmi. Comunque. Poco alla volta li ho ricalcati tutti e sono spariti. Dileguati tra la punta di grafite e il bianco del muro. Soffiati via come polvere. Ora sono rimasti i contorni sui muri e io ogni tanto li guardo perché non sono più fantasmi e penso che sono solo disegni, ma sono venuti proprio bene, anche se li ho ricalcati.