Friday, November 24, 2006

TrePerTre

La capo reparto me lo dice sempre: "Non ti affezionare. Il nostro è un lavoro: la gentilezza non deve diventare privilegio e la compassione non deve sconfinare in devozione. E' un lavoro, il nostro". Non è un lavoro come gli altri, penso, però è un lavoro e lei ha ragione. Siamo infermiere, mica crocerossine. Lui è arrivato un mese fa. Conciato come quei gatti che iniziano la carriera di randagi con una zuffa in strada. Quell'aria macilenta e arruffata non se la scrollano, ancheggiano guardinghi e non smettono più. Sopravvivenza. Quasi non respirava. Fitte dappertutto. Le prime notti, certe urla che non avete idea.
"Incubi...", diceva con un sorriso stanco e smorto al risveglio. Durante il giorno non so cosa facesse, come fronteggiasse il dolore. Io faccio il turno di notte, quando la malattia decide se prendersi una pausa o sferrare assalti come stilettate. Abbiamo iniziato a parlare il quinto giorno, quando è stato in grado di chiedere dell'acqua. L'ha chiesta con un imbarazzo enorme, come se il mio non fosse un lavoro, come se non fosse compito mio. Forse è questo che mi ha disorientata, che ha annullato il promemoria della capo reparto. Il fatto che chiedesse tutto come fosse un extra: la Perlier nel frigo-bar di una pensione a due stelle. Abbiamo iniziato a parlare quando mi ha chiesto dell'acqua.
"Come si chiama?"
"Esther"
"Posso chiederle dell'acqua, Esther?"
"Sono qui a posta"
Ha sorriso come si sorride a un bambino che sbaglia di poco il risultato di una moltiplicazione. Tre per tre: otto. Sorriso: quasi.
Dopo averlo fatto bere, ho preso coraggio e gli ho chiesto cos'era successo. Come era successo. Non lo aveva detto neanche ai paramedici; col primario era rimasto muto. Si era avvicinato un chirurgo:
"Ci aiuti. Cos' è successo?"
"Un incidente..." e aveva stiracchiato quello stesso sorriso. Tre per tre? Otto. Quasi.
Così ho preso coraggio e gli ho chiesto:
"Cosa è successo? Come è successo?"
"Mi sono sforzato troppo di capire" ha risposto.
"Troppo?".
"Troppo. C'è un limite anche in questo, sa Esther? Ed è un limite che si può passare poche volte. Perché se accade una volta in più, quella disgraziata volta in più, si finisce bucherellati come uno scolapasta. Inziamo a fare acqua da così tanti punti che non c'è modo di arginare. Si affonda".
"E i lividi? Quei lividi?"
"...quello è il meno, Esther. Il meno. Le citerei una canzonaccia pop che dice il contrario. Ma mi creda, perfavore, le canzoni dicono un sacco di scemenze".
"Le credo. E come ha fatto a non affogare?".
"..."
"..."
"Lei lo sa quanto fa tre per tre, Esther?"
"... nove?"
E sorrise addormentandosi.
Ora dovrei parlare un po' di me, ma non ne ho voglia. Non per pigrizia, è che col lavoro che faccio finisco per essere circondata da così tanta vita che quella che ho mi pare un dettaglio trascurabile. Certo, io ho attorno tante vite e prese singolarmente probabilmente risulterebbero anche meno interessanti della mia. Ma non ci sono singole esistenze nel reparto di un ospedale. C'è un colpo d'occhio indistinto coi colori delle lenzuola e del metallo e della fòrmica e dei pigiami e delle scatole di caramelle e dei fiori e delle medicine e dell'attrezzatura e della disperazione e del dolore. Anche il dolore ha un colore. Un misto grigioverdeviola. Pensate sia pazza? Provate a strizzare gli occhi e dopo qualche minuto inizierete a vederlo anche voi. L'unica cosa che interrompe il colpo d'occhio è la cartella di ogni paziente. E ogni paziente finisce per avere il nome di un medicinale. Di un analgesico. Di un antiemetico. Di un calmante. Sono un'infermiera, io, mica una crocerossina.
Nei giorni successivi iniziò una sorta di rituale tra me e lui. Un gioco, quasi. Dopo la cena. Si sistemava a fatica nel letto, la mano sotto il viso, sul cuscino, come a impedirsi di rilassare del tutto i lineamenti e chiedeva. Mi chiedeva cosa mi sarebbe piaciuto sapere che avrebbe ricordato di me.
"Starò meglio, lascerò l'ospedale. Cosa vorrebbe mi ricordassi di lei, Esther?"
"E' un paziente," dicevo a me stessa. "Tu sei un infermiera. Questo è il tuo lavoro. E' un lavoro". Risposi lo stesso:
"La mia voce, immagino. Vorrei che ricordasse la mia voce".
"E' un po' vago. Una voce si dimentica... Magari dovrei ricordare come pronuncia una parola".
"Ha ragione. Io non so dire cucchiaio, incespico sulla prima sillaba. Magari può ricordarsi di questo..."
Sorrise. Tre per tre: nove. E chiuse gli occhi.
Da allora, ogni sera, gli dicevo cosa avrebbe dovuto ricordare di me. Una sorta di testamento impugnato da viva. Una sfida alla memoria e al tempo.
"Come arrotolo le maniche del camice".
"Come rabbrividisco quando qualcuno ha lasciato la finestra aperta"
"Il sospiro che faccio quando è ora di andare"
"Questo è un po' vago..."
"Vero. Uhm. Il sospiro che faccio e come vòlto la testa".
"Può andare. E' difficile ma credo di poterlo memorizzare".
"La forma che do quando sprimaccio il suo cuscino"
"Come rovisto in borsa quando cerco i fazzoletti"
"Non l'ha mai fatto".
"Lo faccio ora. Mi sono raffreddata".
La pelle assorbì i lividi e le ferite cicatrizzarono. Non smise mai di avere quel modo imbarazzato di chiedere. Tre per tre? Otto. Quasi.
La capo reparto mi guarda scuotendo la testa. "Te l'avevo detto. Non ti affezionare. E' un lavoro il nostro". Lui è arrivato un mese fa e 'stamattina è stato dimesso. Il mio turno è finito da due ore e sono ancora qui con il tè del distributore in mano.
"Lo sa quanto fa tre per tre, Esther?" mi ha chiesto 'stanotte.
"Non ne sono sicura". Ho risposto.
"Neanche io, Esther. Finalmente. Di nuovo" e ha sorriso.




Tuesday, November 07, 2006

Lorodue

"Iniziamo, va bene?".
Fissano entrambi il registratore che ho poggiato sul tavolo e terrà traccia delle loro risposte. Lo guardano con lo stesso sospetto che riserverebbero a un intruso attardatosi alla finestra per cogliere momenti della conversazione.
"Quello devi accenderlo per forza?".
E' lui che si lascia scappare il pensiero. La voce come suono di foglie secche. Annuisco con un sorriso. Sospira e si sistema sulla sedia. Lei liscia per l'ennesima volta il vestito a fiori. Fiori piccoli, viola. Non è servito ripetere che non avrei scattato foto: è un'occasione e per le occasioni ci si cambia d'abito. Lui infatti, ha il cappello migliore. Iniziamo, allora, dico guardando prima lei che ricambia con l'azzurro più limpido che ho mai visto, poi lui che solleva appena il labbro superiore. Buffo come siano le donne ad essere più preoccupate prima e gli uomini a farsi scoprire più spaventati dopo. Comincio col chiedergli del loro primo incontro. Parlano a fatica. Non si interrompono mai. Evitano ogni riferimento agli elementi che possano ricondurre al tempo. Pronunciano i nomi delle persone come fossero lì presenti. Parti di una storia che non è mai finita e in alcuni casi continua certe domeniche al campo santo. Lei mi racconta dei suoi ritorni a casa. La salita alla fine, la farina dappertutto. Lui a quel punto soffia via una frase. Non la sento e gli chiedo di ripeterla.
"Era la più bella."
Il bordo della tovaglia si torce tra le mani di lei. Lui gonfia il petto con un respiro lungo decine di anni e di strada brulla col grano ai lati. I ricordi si incollano l'uno all'altro.
"Eravamo già sposati e a mezzogiorno la vedevo arrivare sotto il sole a picco. Con il pranzo. Io le dicevo: lo prendo la mattina quando esco. Perché devi arrivare fino ai campi?"
"Poi ti si fredda."
Ogni giorno.
"E' testarda."
"Lo farei ancora" bisbiglia lei guardando la gamba che non si può muovere e buttando un'occhiata al crocefisso. Qual è il confine tra devozione e ostinazione, mi chiedo? Cos'è la fede quando perdi una figlia di pochi mesi e tuo marito torna dall'Africa falsificando documenti? Ma di quella bambina non si parla. E' il solo veto che mi hanno imposto: non chiedere e non dire. Cos'è la fede? Un pezzo di legno più fresco degli altri schiocca nel camino.
"Tuo padre è stato il figlio più difficile. Io non sapevo come si fa con i figli che non sono fatti per stare nel posto dove nascono."
Sto per obiettare che voglio parlare di loro due, ma lo lascio dire.
Leggeva tanto. Pensava tanto."
"Anche tu pensi tanto."
"Sì, ma nei momenti in cui si può. Ero preoccupato quando hai iniziato a crescere. Sei uguale."
Io veramente volevo parlare di voi. Lei intanto mi guarda e senza socchiudere gli occhi azzurri limpidi mi dice:
"Ma tu sei meno affrettato."
Lui annuisce con un suono che viene dalla gola. Io spengo il registratore, mi siedo di nuovo e continuo a farmi raccontare.

Monday, October 30, 2006

A Riva

Ché è l'ultimo sole del giorno e qui a riva io impasto la sabbia. Deciso: ora faccio un castello e ci metto un bel drago di plastica verde che faccia la guardia a una donna promessa rinchiusa. Poi prendo e mi alzo, strizzo gli occhi e stropiccio le mani, le appoggio sull'acqua che scivola a riva e risalgo. Ché è l'ultimo sole che prendo e dimenticherò quanto immagino ora mi mancherà e mentre quest'uomo che appena conosco rimette a posto le sedie sui tavoli io chiedo -se posso- chiedo qualcosa da bere: è rimasto qualcosa? C'è ancora del vino... Il resto lo metta in un altro bicchiere: il resto lo beva con me. Allora davanti a questo sole che è l'ultimo sole del giorno e del mese dell'anno in cui, quest'uomo che appena conosco, stropiccia le mani e lancia il grembiule che plana su una sedia ed esce con me di nuovo davanti a questo sole che è l'ultimo sole dell'ultimo giorno del mese dell'anno in cui e mi dice: è buffo ma sa non mi ci abituo, tanti anni e non cedo a questo giorno di questo mese in cui tutto chiude e inizia altrove con un maglione pesante. E' il mio lavoro e son qui da anni e non mi abituo, non cedo. Eppure -mi dice- eppure. Sorrido col vetro del bordo del bicchiere che mi scappa dagli angoli in su della bocca, sorrido e strizzo gli occhi: eppure. Già -dice lui- già. Eppure so che da qualche parte c'è già l'inizio, da qualche parte c'è già il sole che sbuca di nuovo e la sabbia da drenare e le file numerate, la corrente da attaccare di nuovo per sentire il banco dei gelati ronfare. E un po' dimenticherò quanto immagino ora mi mancherà e non ne avrò il tempo a meno che non sia il tempo a farsi avanti. Il punto è comunque farsi trovare pronti, no?
La aiuto a lavare i bicchieri. Rientriamo con appena un brivido sotto le camicie.

Saturday, October 07, 2006

Cura


Lei irrompe nel corridoio saltellando su una gamba sola tenendo entrambe le mani sull'altra all'altezza del ginocchio postura che le causa un'andatura ondivaga riallineata e parzialmente assettata dalle pareti del corridoio che limitano le oscillazioni incerte del procedere.
Ahiachedolorepor...(incespica contro la parete)...camiseriaaachemmaleeemipr...(incespica ancora)...endidelghiacciooo?...
Corro in cucina apro lo sportello del freezer che oppone una resistenza sottovuoto di gelo che pressurizza e incolla la gomma della guarnizione. Rovescio cubetti di ghiaccio in un canovaccio con colpi secchi e veloci, avvoltolo e stringo forte mentre mi precipito in salotto dove lei è scomposta su una poltrona e cerca di avvicinarsi maldestramente il tavolino per poggiare la gamba. L'operazione è complicata perché il tavolino è pesante e il ginocchio pulsa se la pelle si piega. La sua mano sinistra copre ancora la parte offesa.
Com'èsuccessostaibene? mi ascolto chiederle. Niente, mi risponde -cavolisefammaaalee...sthsssss... si avvicina il canovaccio scricchiolante di ghiaccio e più questo copre il ginocchio più lei scosta la mano. Nientesonocaduta. Da dove?Come? Mentre aspetto la risposta torno in cucina -posso ancora sentirla- e riempio un bicchiere d'acqua facendone scorrere abbondantemente più della capacità perché sia fresca e -stavoprovandoasistemarelalucefuori- tieni, bevi mi ascolto dirle mentre la interrompo e avvicino il bicchiere alle sue mani alla sua bocca contratta che parla sthsssss...
Lasciami dare un'occhiata, vuoi? Vediamo cosa hai. Forse è il caso di andare al prontosoccorso, forse magari basta un po' di cicatrizzante. Lasciami dare un'occhiata, vuoi?
Nonono, aspetta. Aiutamiasistemareiltavolino. Prendiuncuscino? Avvicino il tavolino le tolgo la scarpa la sfilo piano perché non ci siano torsioni movimenti bruschi nervi che tirano muscoli ipersensibilizzati dalla caduta sollecitati e metto il cuscino sotto all'altezza del polpaccio. Penso per un attimo -che scemo- penso che belli i suoi polpacci che belli. Va bene così? Mi ascolto chiederle. Stringe gli occhi e accenna un sorriso sofferto benissimo, grazie. Adesso però, le dico, adesso vediamo che succede lì sotto vediamo?
Lei scopre il ginocchio lentissimamente e a ogni piccola porzione di pelle che si svela io immagino di vederla più rossa, già blu per il livido, contusa, ferita, vivida di carne o pelle sollevata, un'abrasione, un graffio. Lei scopre il ginocchio lentissimamente e sotto svela lentissimamente svela un ginocchio perfettamente sano appena più chiaro per il ghiaccio che ha rallentato la circolazione ma decisamente illeso privo di ogni traccia di caduta e più ancora di urti, tagli o ferite.
Mipiacequandotiprendicuradime.
Il ghiaccio sciolto sgocciola attraverso il canovaccio sul ginocchio perfettamente sano e sul polpaccio -che scemo- penso che belli i suoi polpacci.

Monday, September 25, 2006

Is This Now


Forse ricordi. Io ero lì che costruivo areoplani di carta e li poggiavo in formazione sull'erba. Credevo che mi sarei preoccupato solo di fare il mio stupido dovere, il mio sciocco compito di far del bene al mondo e che avrei lasciato la malizia a quelli che avevano voglia di perdersi il piacere di un 'grazie'. Io ero lì che sfruculiavo le scalanature indisponenti tra le linee di velluto dei miei pantaloni. Credevo che non avrei mai più avuto il coraggio di imbracciare la chitarra e imitare una voce buffa solo per veder sorridere qualcuno. Non mi piaceva quello che avevo attorno eppure facevo di tutto per compiacerlo. Perché le mie aspettative erano ingarbugliate in un senso di nostalgia lontana, di quelli che tappano le orecchie con un fischio lungo che attraversa longitudinalmente la testa da un emisfero all'altro. Ingarbugliato -sai- è proprio la parola giusta. Col dolore spillato sotto la punta di ogni dito. E a Roma erano giorni che non faceva altro che piovere. Forse ricordi. Siepi e silenzi. Il mio piccolo giardino tenuto con cura stolida. Tu che ti aggiri e sbirci proprio lì dove poi avrei piantato un pezzo di legno chiaro con incise le parole: "mi dispiace". Forse ricordi. Io ero lì che facevo niente o poco altro che sollevare la coperta del letto perché tu togliessi la scatola da sotto. Quella dove nascondi la parte più preziosa e segreta di te. Finché insieme ci siamo seduti sull'erba, accanto agli aeroplani di carta in formazione e abbiamo scoperto a cosa servono gli alberi. Gli alberi servono a legarci ben strette due corde e a loro e tra loro una tavola robusta. Gli alberi servono ad appenderci le altalene.

Monday, September 18, 2006

L'albero, la luce e i sogni


Ho un albero che quasi entra nella mia stanza. Per ora seduce con promesse di fuga il mio balcone. Dialoga con la luce che lascio sempre accesa, dietro la finestra socchiusa. Non so cosa si dicano. La mattina trovo tracce di ombre sul pavimento. Segno che hanno parlato fitto tutta la notte. Per questo forse dormo poco. Per questo e perché sogno cose concrete. Sogno sogni realizzabili. Pessima abitudine reiterata. Di giorno li trovo sul pavimento. Accanto alle ombre. Suggestioni possibili. La notte credo parlino con l'albero e la luce sempre accesa. Sogno cose concrete e mi stanco mentre dormo. Mi sveglio con la sensazione di aver già fatto tanto, prima ancora che il giorno inizi. Mi sveglio con l'eco del brusio di una conversazione lunga un giro completo delle costellazioni. Chissà cosa si dicono, i miei sogni, l'albero e la luce.
Ieri notte non dormivo perché non volevo. Sono uscito in balcone e, affacciandomi evitando l'albero, ho guardato giù perché pensavo che sarebbe passata una bicicletta dall'equilibrio precario come una danza e le ho detto
"Sali che c'è posto, figurati: qui pare una riunione di famiglia ogni notte, tra luci, alberi e sogni.
E la bicicletta ha fatto girare un po' la catena a vuoto e mi ha risposto
"Scendi tu, che tanto tu dormi poco. E poi c'è una notte così bella. Così bella."


Thursday, September 07, 2006

Notturno

Il tempo acquista strati come letti a castello infiniti; duemilamilionidimiliardi di baci della buonanotte e i sogni impilati: l'ultimo piano è il penultimo del penultimo e ancora prima del soffitto e il soffitto è una notte di cui pilucchi le stelle e le mangi a bocca socchiusa, giocando a far illuminare il buio da dove escono le parole e i sorrisi. Poi inghiotti ed è un bacio a cinque punte che sfrigola e solletica le labbra come granita di neve, come briciole di colazione.

Il tempo gironzola come un'idea e si intrufola e si intromette, piede tra lo stipite e la porta e tra il dritto/rovescio di un lenzuolo di cui cerchi per minuti il verso. Il tempo lo stendi pigliandolo per i lembi e cade qualcosa a terra: è quello che stavi cercando tra le pieghe del cuscino sul tuo viso, lo guardate attoniti, tu e chi regge gli angoli opposti e complementari e il lenzuolo cade in nome della curiosità di ciò che è stato ri-trovato.

Il tempo annuisce come prua di nave che sfarfalla le onde; legata al braccio la tua rotta, stropicci le mani e spariscono le direzioni -ecco fatto. Il tempo strattona vele e sposta le isole nella notte e sistema il suo personale puzzle di coincidenze riflesse nell'acqua che sciaborda insistente.

Il tempo sistema paletti di vaniglia lungo il perimetro di quello che tu stesso gli insegni nuovamente a delimitare e ognuno si scioglie appiccicoso e dolce per cedere il posto, cedere il passo, rilasciare il sapore di un confine che cade. Cederlo arrendevole consapevole del piacere di lasciarsi vincere. Conquistare accogliendo ancora una volta.

Il tempo che arriva. Nel tempo che c'è.


Saturday, July 29, 2006

Racconto



Il giorno in cui è nata hanno spezzato le ossa a un uomo che aveva assassinato un'infanzia. Così è venuta al mondo con uno strepitio di legna bianca: il ginocchio a fare il suo dovere di fulcro, le mani a tendere fino a superare il limite. La rottura definitiva. L'uomo che aveva assassinato un'infanzia è rimasto a terra una notte e buona parte della giornata successiva. Sette minuti dopo la mezza si è alzato massaggiandosi la mascella i denti grumosi le ginocchia tremolanti e si è avviato verso casa. Dove la trovi la voglia di vivere ancora gli hanno chiesto prima di schiantarlo contro una recinzione. Dove la trovi, bastardo? Prima di morire ha detto solo grazie. Sorrideva. Il paese intanto lasciava le parole a scolorire col bucato gocciolante appeso. L'indomani sarebbe arrivata la domenica. Durante le cene in nessuna delle case venne interrotto lo scalpiccio delle posate. I mariti e padri si versarono un bicchiere di vino in più. Segno che il sonno avrebbe tardato. Pur non mancando all'appuntamento coi giusti. Dove la trovi, bastardo?
Padre perdona loro perché non sanno quello che. La messa terminò con la gente a sparpagliarsi via dal sagrato come carte distribuite nell'ultima mano veloce. Non una parola durante l'omelia. Tre posti vuoti sui banchi smussati dalle invocazioni della Grande Guerra. Il sole schiantato sui muri per un attimo fece dimenticare a tutti di aver posato mattoni su mattoni. Un paese venuto su da una volontà indistinta. Ci si sveglia perché è giorno. Si lavora perché i calli sulle mani si indossano come camicie e pantaloni.
C'era una vita nuova da battezzare. E un nome da dimenticare. Piantato ossessivamente nelle teste di tutti. La paura era che venisse alle labbra al momento di promettere un figlio a Dio. Utilizzare quello dell'infanzia assassinata era fuori discussione: di guai ne aveva già portati troppi.
Qualcuno propose di lasciar fare al tempo. Ché a volte i nomi saltan fuori per consuetudini, balbettamenti che si stratificano fino a formare lo spessore di un'abitudine. Però quella era una vita e non una cosa -benché viva- e c'era bisogno di un suono da associare ai rimproveri, ai primi richiami dalla finestra lanciati giù nello sputo di una via stretta lontano dal sole dove ogni bel gioco che si rispetti dura poco. Questo bisognava poterlo insegnare. Prima lo capisce meglio è. E poi come si fa col battesimo? Con l'anima da raccomandare? Con l'appello da sciorinare? Presente o assente inguistificata dovrà potersi alzare in piedi e rispondere. Decisero le donne, con un rapido conciliabolo risolutissimo attorno al tombolo sul tavolo della più anziana. Decisero per Lucia: ché avesse gli occhi aperti, non incappasse mai in quelli che assassinano le infanzie e, più in generale, in tenebre e tentazioni. Sinonimi da Nuovo Testamento altrettanto intagliati nei crocefissi della saggezza popolare.
Lucia, però, in barba a simili propositi, cresceva con gli occhi chiari e una predilezione per ogni anfratto, ogni angolo in cui la luce rendeva difficile distinguere i contorni delle cose. All'inizio furono panico e ceffoni. Dopo un po', l'ostinazione ebbe la meglio e divenne un fatto normale vedere le ante dei mobili più bassi aprirsi come sbloccate da una forza invisibile e il viso di Lucia e i suoi occhi chiari fare capolino con un sorriso. Nessuno sobbalzò più nello svoltolare lenzuola o coperte e trovare Lucia intenta a disegnare morbidi tunnel con la precisione di una speleologa. Era ancora piccola per riuscire a scavare ma, tutti ne erano certi, a breve avrebbe attaccato la terra grassa e umida dell'orto di famiglia. Almeno si sarebbero liberati di parassiti e talpe.
Due mesi dopo aver compiuto nove anni, Lucia sgambettava precisa in direzione del forno. Nel pugno destro, sudaticcio, i soldi contati per mezzo filone di pane. Non bruciacchiato. L'ingresso del negozio, progressivamente più vicino, annunciato dall'odore fragrante e confortevole. Poi di corsa a casa, poi di nuovo a giocare. In programma una spedizione verso un mattone che dicevano potesse essere rimosso da uno dei muri esterni dell'edificio del Comune. Ci nascondono qualcosa. Sicuro. Monete? Documenti. Segreti, comunque. Due mesi dopo aver compiuto nove anni Lucia sgambettava precisa puntellando i passi ad un ritmo sincronizzato ai suoi pensieri. Oltrepassando l'arco del Vicolo della Carità resistette alla tentazione per la quale era stata sgridata molte volte. Tira dritto: prima torni a casa, prima scopri cosa c'è dietro quel mattone. Mezzo. Filone. Non. Bruciacchiato. Pizza. No. Mezzo. Filone. Pizza. Rossa. No. Ho. Detto. No. Mezzo. Filone. Non. Crostata. No. Filone. Mezzo. Non. Bruciacchiato.
Dallo stesso arco ormai superato abbondantemente, sbucò il Vispo. Ragazzino il cui nome era scivolato via nel tempo, sepolto dalla sua stessa fama di esagitato iperattivo. Muto come un pesce, il Vispo aveva la strana abitudine di anticipare intenzioni e desideri altrui con gesti piccoli -date anche le poche primavere compiute- e sbrigativi. Efficaci, comunque. Il giorno in cui deciderà di parlare non lo zittiremo più -pronosticavano genitori e parenti. Il Vispo intanto taceva. Fissava, ragionava, anticipava. Raggiunse Lucia prima che aprisse la porta del forno. Lei lo aveva visto solo un paio di volte. Il Vispo, condannato dal mutismo e dalla spiccata attitudine alla sua strana forma di veggenza, non giocava spesso con i coetanei. E del resto sarebbe stato difficile, non rispettando i turni imposti da quasi tutti i giochi conosciuti. Ciao, disse Lucia. Il Vispo era già dentro. Lei si trascinò al bancone cercando di fissare il sorriso di Angela, la panettiera. Era fondamentale non distrarsi. Pizza. Rossa. Niente. No. Un fil...MEZZO filone di pizza non rossa...no...un mezzo pane. Filone. Pizza. No. Crostata. No. Mezzofilonedipanenonbruciacchiatoperfavore. Uff. Angela sorrise e divise la pagnotta in due. La imbustò e la depositò tra le mani sudaticce di Lucia. Le stesse mani che poggiarono i soldi contati sul ripiano davanti al registratore di cassa. Arrivederci. Pizza. Rossa. NO. Uff. Quindici secondi e sei o sette passi più in là, il Vispo brandiva una succulentissima striscia coperta di pomodoro. Vuoi? Lucia strinse più forte il pane tra le mani, pane che esalò una zaffata penetrante di croccante lievitazione. Lo stupore, va' da sé, era per il suono emerso dalla bocca del Vispo come un oggetto costretto sotto l'acqua e poi liberato, piuttosto che per l'offerta di quel trancio di pizza. Il Vispo annuì. Lucia anche. Il primo morso non aveva ancora intaccato del tutto la pizza rossa che nel suo stomaco cominciarono a frullare farfalle in senso orario, ordinatamente armonico con pianeti, orologi e tutte le cose complicate e bellissime del mondo. Avesse avuto qualche anno di più sarebbe stata capace di dare un nome a quella sensazione. Si limito a sorridere e, con la bocca piena, rispondere: grazie. Per una volta, il Vispo era in -lieve, splendido- ritardo.

Friday, July 28, 2006

Mesi



È difficile. Questo è tutto quello che so.
È passato quasi un anno.
Non scrivo più da mesi.
Oggi ho comprato un mixer e, in fondo, è lo strumento che vorrei poter applicare a quello che vivo. Qualcosa che riporti i livelli al giusto equilibrio. Che alzi il volume di quello che ormai sussurra, che abbassi il tono di quello che dovrebbe scemare.
Mesi.
Mesi durante i quali ho imparato a resistere. Chiudere tutto e resistere. Al dolore, alla mancanza di rispetto. A quello che ho perso e che, contemporaneamente, non ho mai perso. Ho scoperto di essere in grado di faticare. Davvero. Di saper cercare. Guardare quello che trovavo e continuare. Ho scoperto che mi spavento poco. Che non sono capace di tutto. Si chiamano limiti. O forse confini.
Mesi.
Mesi in cui ho imparato a vivere di risorse. A sorridere di sorrisi che partono dal profondo. A guardare con chiarezza le persone. Scegliere, scegliere e poi ancora scegliere. Scegliere anche quando non sembra esserci più nulla da preferire. Nulla che si possa chiamare 'desiderio'. E poi scoprirlo ancora e ancora sentirlo accartocciarsi. Come l'ennesimo foglio su cui non scrivi nulla. Come l'ennesima frase che non potrai dire. Che dovrai tenere per te.
Mesi.
Mesi in cui apri le mani e le scopri pronte. Pronte e vuote.
Mesi.
Mesi di congetture e speranze. Convinzioni che si gonfiano e si spaccano come il legno quando il caldo e il freddo si alternano. Sconfitte enormi. Vittorie che stanno tutte in una tasca. Tanti, tantissimi passi. E, per la prima volta nella mia vita, camminare e non capire niente. Non riuscire a capire niente.
Mesi.
Mesi impacchettati. Chiusi nella carta da lettere. Email, foto, la testa pesante. Nessuna mattina diversa dall'altra. I corvi in giardino. Bologna col sole. Gli amici che non sanno. Mio nonno che muore. Tenere tutto lontano da tutto. Salvarmi e salvarti. Tutto al riparo. Neanche una doccia finita senza un pianto.
Mesi.
Mesi con un telefono davanti. Nella tasca dei pantaloni. Aspettare e scoprire che l'attesa non serve a nulla. Agire. Il coraggio. Scusarsi. Rimediare. Nessuna possibilità di farlo. Nessuna. Chiedersi se si è in grado. Mettersi alla prova. Milioni di bicchieri d'acqua. Come stai? Non rispondere non pensarci non darsi il tempo di rispondere. Perché? Perché è una domanda come un'altra. Basterebbe un attimo. Anche ora? Non lo so. Lo so benissimo.
Mesi.
Cos'è che non ho fatto? Cosa avrei potuto fare? Quando ho deciso che era abbastanza? Chi c'è? Cosa credi di aver capito? Nulla.
Mesi.
Tutti i venerdì. Non parlo di mia madre. Parliamo di mia madre. Sentire uno scricchiolio costante. Sono io? No: sei tu. Crepe. I colori che emergono di nuovo uno alla volta. Come in una gigantesca camera di sviluppo. Ho delle braccia. Le mani sono sempre quelle. Pronte e vuote. Trentotto chilometri al giorno. Ho ancora un corpo. Non ci disegno strade. Non lascio che ne disegnino. Milioni di bicchieri d'acqua. Pronto, buongiorno mi dica. Vite. Io sono ancora una persona gentile. So come si fa luce. So innamorare. So ancora innamorarmi? Milioni di bicchieri. C'è ancora musica.
Mesi.
È quasi un anno. Sono altrove. Un anno al di là. Tre passi. Uno, due, tre. Mi giro e non capisco ancora del tutto. Mi giro e ancora ti trovo. Le mani ancora pronte e vuote. Continuo.