Le parole non si rigenerano da sole. Non sono pelle, non sono una pianta che poti e annaffi. Le parole non si riprendono autonomamente il loro significato, non si scrivono da sole la loro storia e il loro valore. Le parole si ammalano, perdono lettere e forza, offese dalla ripetizione e avvilite dalla noncuranza. Le parole fanno fagotto e finiscono altrove, in altre bocche, sballottate dalle frequenze prodotte da altre corde vocali; spanciano volgari, tuffandosi da altre lingue e precipitando in altre labbra. Fin quando, spianando l'ennesima pagina, realizzi che non significano più nulla per te. Anche se provi a riassegnargli un viso, se gli cambi posto all'interno di frasi che -hai giurato- non pronuncerai mai più.
Inizi a tacerle. Il vocabolario progressivamente ridotto a pochi eufemismi, i soliti gesti per supplire al vuoto: vòlti le spalle o le alzi simultaneamente ad incassare la testa. Le dimentichi e allunghi le pause che seguono sorrisi e assenza di respiro. Non ricordi più e cerchi alla rinfusa surrogati di non sai bene cosa. Tenti di affidare il compito a qualcos'altro. Forzi immagini e suoni che fanno il loro dovere, ma non rimpiazzano lo smarrimento. Intanto quello che puoi dire non occupa più spazio di un foglietto nella tasca e la tua voce ha il tono sgradevole di chi è stato troppo tempo in silenzio: di chi è continuamente appena sveglio.
Per questo ringrazi chi arriva con una scatola piena e la rovescia sulla tua spalla, vicino all'orecchio. Ringrazi come un assetato e l'entusiasmo di riavere tutti quei termini ti fa balbettare ancora, mentre afferri tutto con le stesse mani con cui ricacci dentro quello che cola agli angoli della bocca. Voracemente ingurgiti e il foglio in tasca diventa un libriccino e poi un volume pesantissimo pieno di illustrazioni con chilometri di didascalie e tu metti convulsamente a posto ogni cosa, costruisci scaffali e cassetti alla velocità della luce: con una foga che ti gonfia gli occhi. Esausto ringrazi e continui. "Non voglio smettere", lo dici con la lena di chi sa quanto è dolorosamente devastante agitare le mani a vuoto e, a quel punto, ti senti rispondere:
"Ora invece mescoliamo tutto".
"Giochiamo a Shanghai: smazziamo le parole come bastoncini. Come l'inizio di una partita, come spaghetti messi a cuocere nella pentola all'ora di pranzo."
Accetti la sfida e separate le parole. Le sollevate con attenzione precisa: con cura e concentrazione per quell'unico gesto compreso tra i polpastrelli stimolati dal pizzicorio delle punte. Ti accorgi che bara. Che a volte le parole, i bastoncini, tremolano. E' questione di passato -pensi. Di distorti significati pregressi. Di come non ci sia poi talvolta l'abitudine a vedere certi termini accostati secondo quell'ordine, una volta liberati dal caos. Ti accorgi e non dici niente. Prosegui la sfida, il passaggio dall'affastellare al riporre. Ricombini e osservi quell'intrico, imparando ad apprezzarne il delirio fascinosamente organizzato. La partita termina e inizia di nuovo. C'è una pausa che per un attimo ti pare esitazione. Magari non si può dire più di così. Magari le parole si consumano da sé -pensi. No, impossibile. Le parole non si rigenerano da sole, ma neppure sbiadiscono senza l'aiuto della negligenza altrui. La pausa coagula in uno sguardo che ti mette alla prova:
"Ho mosso. Ho mosso e tu non mi hai detto nulla".
Tu sorridi: è il tuo turno. Sollevi un altro bastoncino e rispondi:
"E' vero, non ho detto nulla. Perché tu bari, ma non imbrogli".