Tuesday, November 27, 2007

La Campionessa Di Shanghai




Le parole non si rigenerano da sole. Non sono pelle, non sono una pianta che poti e annaffi. Le parole non si riprendono autonomamente il loro significato, non si scrivono da sole la loro storia e il loro valore. Le parole si ammalano, perdono lettere e forza, offese dalla ripetizione e avvilite dalla noncuranza. Le parole fanno fagotto e finiscono altrove, in altre bocche, sballottate dalle frequenze prodotte da altre corde vocali; spanciano volgari, tuffandosi da altre lingue e precipitando in altre labbra. Fin quando, spianando l'ennesima pagina, realizzi che non significano più nulla per te. Anche se provi a riassegnargli un viso, se gli cambi posto all'interno di frasi che -hai giurato- non pronuncerai mai più.
Inizi a tacerle. Il vocabolario progressivamente ridotto a pochi eufemismi, i soliti gesti per supplire al vuoto: vòlti le spalle o le alzi simultaneamente ad incassare la testa. Le dimentichi e allunghi le pause che seguono sorrisi e assenza di respiro. Non ricordi più e cerchi alla rinfusa surrogati di non sai bene cosa. Tenti di affidare il compito a qualcos'altro. Forzi immagini e suoni che fanno il loro dovere, ma non rimpiazzano lo smarrimento. Intanto quello che puoi dire non occupa più spazio di un foglietto nella tasca e la tua voce ha il tono sgradevole di chi è stato troppo tempo in silenzio: di chi è continuamente appena sveglio.
Per questo ringrazi chi arriva con una scatola piena e la rovescia sulla tua spalla, vicino all'orecchio. Ringrazi come un assetato e l'entusiasmo di riavere tutti quei termini ti fa balbettare ancora, mentre afferri tutto con le stesse mani con cui ricacci dentro quello che cola agli angoli della bocca. Voracemente ingurgiti e il foglio in tasca diventa un libriccino e poi un volume pesantissimo pieno di illustrazioni con chilometri di didascalie e tu metti convulsamente a posto ogni cosa, costruisci scaffali e cassetti alla velocità della luce: con una foga che ti gonfia gli occhi. Esausto ringrazi e continui. "Non voglio smettere", lo dici con la lena di chi sa quanto è dolorosamente devastante agitare le mani a vuoto e, a quel punto, ti senti rispondere:
"Ora invece mescoliamo tutto".
"Giochiamo a Shanghai: smazziamo le parole come bastoncini. Come l'inizio di una partita, come spaghetti messi a cuocere nella pentola all'ora di pranzo."
Accetti la sfida e separate le parole. Le sollevate con attenzione precisa: con cura e concentrazione per quell'unico gesto compreso tra i polpastrelli stimolati dal pizzicorio delle punte. Ti accorgi che bara. Che a volte le parole, i bastoncini, tremolano. E' questione di passato -pensi. Di distorti significati pregressi. Di come non ci sia poi talvolta l'abitudine a vedere certi termini accostati secondo quell'ordine, una volta liberati dal caos. Ti accorgi e non dici niente. Prosegui la sfida, il passaggio dall'affastellare al riporre. Ricombini e osservi quell'intrico, imparando ad apprezzarne il delirio fascinosamente organizzato. La partita termina e inizia di nuovo. C'è una pausa che per un attimo ti pare esitazione. Magari non si può dire più di così. Magari le parole si consumano da sé -pensi. No, impossibile. Le parole non si rigenerano da sole, ma neppure sbiadiscono senza l'aiuto della negligenza altrui. La pausa coagula in uno sguardo che ti mette alla prova:
"Ho mosso. Ho mosso e tu non mi hai detto nulla".
Tu sorridi: è il tuo turno. Sollevi un altro bastoncino e rispondi:
"E' vero, non ho detto nulla. Perché tu bari, ma non imbrogli".

Monday, November 19, 2007

In Fila Per Due




C'è sempre un momento -mi dico- ed è sempre stato possibile identificarlo. Scriverlo con scarsa approssimazione su un foglio: quattro cifre separate in coppie da due punti che lampeggiano su un display. Invece le cifre cambiano colore, cercate alla penombra di un piumone sistemato a igloo sotto il quale riavvicini il piacere come una convalescenza. C'è un momento preciso eppure io non so fermarlo. Scrivo storie di illusionisti che riscoprono la loro capacità di stupire imparando a sorprendersi loro nuovamente per primi e mi sfuggono le parole da tutte le parti, mi sforzo di tenerle unite come bambini in fila, elettrizzati dal suono della campanella e quelle -le parole- se ne vanno ovunque e io getto le braccia lungo il corpo e sorrido e dico a me stesso -mi dico: "Ma sì, andate", ché c'è un tempo per stare il fila per due e un tempo per scontrarsi come satelliti impazziti nel cortile all'ora della ricreazione.
C'è una gradazione di attimi in cui fisso una schiena che viene a sistemarsi su di me e lo fa come un'altra maniera di respirare e io penso a quando sta per nevicare, a quell'istante preciso in cui tutto è immobile, aspirato alla successione delle cose: inghiottito e immobile. A quando poi tutto riprende col primo fiocco, come uno schiocco di dita riavvia il caos rilassato che segue le foto di gruppo: ora possiamo di nuovo sparpagliarci nel bianco, ora che ci stiamo costruendo un presente e degli splendidi ricordi. Eppure anche quel momento si sfilaccia e non sono più così sicuro che sia possibile identificarlo. Riuscire a dire quando precisamente accade.
Localizzare è semplice quando ci sono pochi dettagli, quando si decide di circoscrivere l'area da cui parte il riflesso attraverso cui verremo individuati. Quando però si piazzano specchietti ovunque e ogni cromatura, ogni finestra sventagliata è un pretesto perché la luce rimbalzi, localizzare diventa impossibile: l'individuazione perde ogni senso di esistere. Intuisco piuttosto che mi stanno regalando un'occasione chiarissima per confondermi. Di più e meglio. Un'occasione che non prevede momenti: è tutta una questione di tempo.
E' allora che getto le braccia lungo il corpo e mi arrendo e non c'è resa più bella di quella in cui poi dico: "Ma sì, andate", ché c'è un tempo per restare fermi e uno per uscire in fila per due a scontrarsi e mischiarsi come caramelle in una tasca.

Wednesday, November 07, 2007

Luneur '60




La famija mia sta qua dar sessanta. Dissero a mi' padre che aprivano il parco tutto l'anno e che c'era la possibilità de entra', de prende' un posto, 'no spazio. Bastava parla' co' un certo onorevole, uno democristiano che contava parecchio. Mo' devi pensa' che mi' padre era proprio un magnapreti, uno de quelli che si solo toccava l'acquasanta quella evaporava. Però c'aveva dei debbiti, degli 'mpicci da risolve' e allora se 'ngojò tutti i princìpi, se mise er vestito bòno e annò a fasse assegna' sto banco. Mo' fatte du' risate. Quelli se conosceveno! Mi' padre co' l'onorevole. Da regazzini, giocavano a pallone in cortile tutti li giorni che dio mannava 'n tera e questo ce pijava tanti de quei carci che figurate si se li scordava. Insomma mi' padre entra, se siede e rimane fermo. Paralizzato. Questo diventa tutto rosso e je fa': "ette mo' chevvoi?". Mi' padre 'manco je risponne. Se sta per alza' e quello, l'onorevole, lo ferma. "'ndo vai?" e lui: "Me sa che io e te nun se potemo capi'". "Co' i sordi se capischeno pure li muti". Capito? Je venì fòri la battuta, senza vole', così. I sordi, li muti. Insomma se fecero 'na risata e se rimisero a parla'. Com'è, come nun è, mi' padre uscì da quell'ufficio co' un contratto e 'na licenza. Trenta a lui, cinquanta a quello, venti ar Comune. Che mo' te pare poco, ma pe' un magnapreti come lui era stato un successone. Torna a casa e festeggiamo. Mo' però tra tutti 'sti corpi de scena non aveva pensato a quello che ce doveva mette' dentro a 'sto baraccone. Pensò e ripensò e decise pe' le corse de li cavalli. All'epoca erano fatte de legno, tutte meccaniche. Ne trovò una a PortaPortese. Un po' scrociata, 'na cosa d'occasione, ma mi' padre cor bricolage ce sapeva fa'. La domenicassera era 'na bellezza. Mo' fai conto che era il sessanta e ce stavano le Olimpiadi. Quelle de Benvenuti alla boxe e de quello etiopico, Bikila. Che quanno che se levò le scarpe se semo detti tutti: "ma 'ndo va sto rincojonito?" e 'nvece vince lui. Secco che pareva che si faceva corente se lo portava 'ndietro a casa. 'Nsomma era er sessanta, ariveno tutti questi co' 'n sacco de sordi, la sera li stranieri che se rimorchiavano l'italiane, l'italiani le straniere, tutti co' tutti; che se c'avevi 'n amico che masticava du' parole de 'nglese stavi apposto. E 'ndo annavano tutti a fa' l'innamorati? Certo ce stava er Tevere, ma quello annava bene a fine serata, prima de torna' al Villaggio. Questi venivano tutti là, al lunapark... E compraje er gelato, e compraje i popcorne, du' spari ar tirassegno, la bambolina... Poi però l'omo der millenovecentosessanta diciamo che c'aveva ancora un po' 'sti vizi che doveva scommette' e -zak!- veniva alla baracchetta de mi' padre. Che mo' c'è da di' 'na cosa. Mi' padre -per carità- era un brav'omo, però dopo un po' se accorse che 'sti cavalli giravano sempre male. Sarà che erano usati, sarà che l'aveva stretti 'n po' troppo, sarà come sarà, decise de allenta' le viti. E insomma qualche poraccio c'ha lasciato 'no stipendio. Tanto che a 'n certo punto mi' padre se fece veni' i sensi de corpa e aridiede 'na stretta. Giusto un mezzo giretto. Nun l'avesse mai fatto! 'Sti cavalli se 'ncastrarono durante 'na corsa e tutti a dije "Ao', so' truccati, limortaccitua!". Hai voja a spiega', quelli se 'ncazzarono e chiesero li sordi indietro. Hai capito? Vai a fa' der bene... Comunque sto a divaga'. Venivano tutti questi e io ner sessanta c'avevo... Famme fa' du' conti... Vabbè, dimo sedicianni. Un pischello. Ero proprio regazzetto lungagnone, che mi' madre pe' famme magna' doveva pija' l'imbuto. Insomma a 'n certo punto ariva questo, se mette a parla' co' mi padre che alla fine capisco che so' magnapreti tutti e due e se stanno a racconta' quello che succede in giro pe' l'Europa. Figurate! Io pe' mme veni' a l'Eur era già 'n viaggio! Poi vedo che questo me indica. Mi' padre je fa occhei colla mano, ché se stavano a parla' mezzo italiano mezzo a gesti e questo arriva e me dice: "L'hai vista la sciambr' de oreri?". Io mo' mica l'avevo capito che stava a di'. 'Sciambrdeoreri'? Ecched'è? Ho pensato: forse ha detto toreri. Sarà spagnolo. E j'ho detto: "Olè!". Mo' me ce vie' da ride, ma pensa che figura che c'ho fatto... Poi ho scoperto che questo era 'n intellettuale, uno de curtura, famoso. Era francese. Che, pe' noi morti de fame der millenovecentosessanta, 'francese' voleva già di' tutto un mondo de cose che te facevano gira' la testa. Ereno artri tempi, nun lo pòi capi'. Insomma questo se mette a ride' e me fa': "Ma che 'olè!', vieni! Allez!". Allè? Olè? Ma che sta a di' questo? -ho pensato. Insomma me porta alla casa dell'orrori. Che mo' all'epoca era 'na cosa sofisticatissima. Tutta artiggianale, fatta ad arte, 'na cosa che pe' noi sempre morti de fame der millenovecentosessanta era tipo Ollivud. "Allez!" ...Arifacce... Entramo e c'è tutto buio, co' dei suoni che io me sento la spina dorsale fredda come 'n morto. Anzi, peggio: ché quello è morto e io 'nvece sto là che 'n artro po' me la faccio addosso. E intanto questo -er francese intellettuale- va avanti e io dietro colle gambe de pastafrolla. "Allè allè!..." Io a 'ncerto punto vedo un pipistrello che me passa a du' dita dalla testa e me pianto. "Mo' basta! -je urlo- M'hai rotto! C'ho paura! Vabbene? C'ho paura, strizza, come cacchio lo dite voi artri?". E pe' faje capi' mejo me tiro er cavallo dei pantaloni. C'avevo sedicianni, capiscime. Nun avevo visto gnente e questo me trascina pe' tutti 'sti orrori e non ce stavo a capi' più. Insomma il francese se ferma, me guarda co' du' occhi così. Considera che li vedo appena, ma penso: mo' me mena. Pensa che c'ho 'na crisi e me pija a pizze. Invece vedo che se sforza, acchiappa le parole da qualche parte e me dice: "Non averci paura di niente, perché niente ci ha paura di te". E me pija un dito e me lo spinge contro 'na parete de roccia de palude che invece mentre lo spigne è de carta pesta e il dito mio fa 'n buco che se vede dall'artra parte e entra un filo de luce sottile mentre lui me dice "Capisce?" e io faccio de sì colla testa mentre un filo sottile entra, un filo de luce der millenovecentosessanta.
Che poi ce so annato in Francia, sai?