Friday, November 24, 2006

TrePerTre

La capo reparto me lo dice sempre: "Non ti affezionare. Il nostro è un lavoro: la gentilezza non deve diventare privilegio e la compassione non deve sconfinare in devozione. E' un lavoro, il nostro". Non è un lavoro come gli altri, penso, però è un lavoro e lei ha ragione. Siamo infermiere, mica crocerossine. Lui è arrivato un mese fa. Conciato come quei gatti che iniziano la carriera di randagi con una zuffa in strada. Quell'aria macilenta e arruffata non se la scrollano, ancheggiano guardinghi e non smettono più. Sopravvivenza. Quasi non respirava. Fitte dappertutto. Le prime notti, certe urla che non avete idea.
"Incubi...", diceva con un sorriso stanco e smorto al risveglio. Durante il giorno non so cosa facesse, come fronteggiasse il dolore. Io faccio il turno di notte, quando la malattia decide se prendersi una pausa o sferrare assalti come stilettate. Abbiamo iniziato a parlare il quinto giorno, quando è stato in grado di chiedere dell'acqua. L'ha chiesta con un imbarazzo enorme, come se il mio non fosse un lavoro, come se non fosse compito mio. Forse è questo che mi ha disorientata, che ha annullato il promemoria della capo reparto. Il fatto che chiedesse tutto come fosse un extra: la Perlier nel frigo-bar di una pensione a due stelle. Abbiamo iniziato a parlare quando mi ha chiesto dell'acqua.
"Come si chiama?"
"Esther"
"Posso chiederle dell'acqua, Esther?"
"Sono qui a posta"
Ha sorriso come si sorride a un bambino che sbaglia di poco il risultato di una moltiplicazione. Tre per tre: otto. Sorriso: quasi.
Dopo averlo fatto bere, ho preso coraggio e gli ho chiesto cos'era successo. Come era successo. Non lo aveva detto neanche ai paramedici; col primario era rimasto muto. Si era avvicinato un chirurgo:
"Ci aiuti. Cos' è successo?"
"Un incidente..." e aveva stiracchiato quello stesso sorriso. Tre per tre? Otto. Quasi.
Così ho preso coraggio e gli ho chiesto:
"Cosa è successo? Come è successo?"
"Mi sono sforzato troppo di capire" ha risposto.
"Troppo?".
"Troppo. C'è un limite anche in questo, sa Esther? Ed è un limite che si può passare poche volte. Perché se accade una volta in più, quella disgraziata volta in più, si finisce bucherellati come uno scolapasta. Inziamo a fare acqua da così tanti punti che non c'è modo di arginare. Si affonda".
"E i lividi? Quei lividi?"
"...quello è il meno, Esther. Il meno. Le citerei una canzonaccia pop che dice il contrario. Ma mi creda, perfavore, le canzoni dicono un sacco di scemenze".
"Le credo. E come ha fatto a non affogare?".
"..."
"..."
"Lei lo sa quanto fa tre per tre, Esther?"
"... nove?"
E sorrise addormentandosi.
Ora dovrei parlare un po' di me, ma non ne ho voglia. Non per pigrizia, è che col lavoro che faccio finisco per essere circondata da così tanta vita che quella che ho mi pare un dettaglio trascurabile. Certo, io ho attorno tante vite e prese singolarmente probabilmente risulterebbero anche meno interessanti della mia. Ma non ci sono singole esistenze nel reparto di un ospedale. C'è un colpo d'occhio indistinto coi colori delle lenzuola e del metallo e della fòrmica e dei pigiami e delle scatole di caramelle e dei fiori e delle medicine e dell'attrezzatura e della disperazione e del dolore. Anche il dolore ha un colore. Un misto grigioverdeviola. Pensate sia pazza? Provate a strizzare gli occhi e dopo qualche minuto inizierete a vederlo anche voi. L'unica cosa che interrompe il colpo d'occhio è la cartella di ogni paziente. E ogni paziente finisce per avere il nome di un medicinale. Di un analgesico. Di un antiemetico. Di un calmante. Sono un'infermiera, io, mica una crocerossina.
Nei giorni successivi iniziò una sorta di rituale tra me e lui. Un gioco, quasi. Dopo la cena. Si sistemava a fatica nel letto, la mano sotto il viso, sul cuscino, come a impedirsi di rilassare del tutto i lineamenti e chiedeva. Mi chiedeva cosa mi sarebbe piaciuto sapere che avrebbe ricordato di me.
"Starò meglio, lascerò l'ospedale. Cosa vorrebbe mi ricordassi di lei, Esther?"
"E' un paziente," dicevo a me stessa. "Tu sei un infermiera. Questo è il tuo lavoro. E' un lavoro". Risposi lo stesso:
"La mia voce, immagino. Vorrei che ricordasse la mia voce".
"E' un po' vago. Una voce si dimentica... Magari dovrei ricordare come pronuncia una parola".
"Ha ragione. Io non so dire cucchiaio, incespico sulla prima sillaba. Magari può ricordarsi di questo..."
Sorrise. Tre per tre: nove. E chiuse gli occhi.
Da allora, ogni sera, gli dicevo cosa avrebbe dovuto ricordare di me. Una sorta di testamento impugnato da viva. Una sfida alla memoria e al tempo.
"Come arrotolo le maniche del camice".
"Come rabbrividisco quando qualcuno ha lasciato la finestra aperta"
"Il sospiro che faccio quando è ora di andare"
"Questo è un po' vago..."
"Vero. Uhm. Il sospiro che faccio e come vòlto la testa".
"Può andare. E' difficile ma credo di poterlo memorizzare".
"La forma che do quando sprimaccio il suo cuscino"
"Come rovisto in borsa quando cerco i fazzoletti"
"Non l'ha mai fatto".
"Lo faccio ora. Mi sono raffreddata".
La pelle assorbì i lividi e le ferite cicatrizzarono. Non smise mai di avere quel modo imbarazzato di chiedere. Tre per tre? Otto. Quasi.
La capo reparto mi guarda scuotendo la testa. "Te l'avevo detto. Non ti affezionare. E' un lavoro il nostro". Lui è arrivato un mese fa e 'stamattina è stato dimesso. Il mio turno è finito da due ore e sono ancora qui con il tè del distributore in mano.
"Lo sa quanto fa tre per tre, Esther?" mi ha chiesto 'stanotte.
"Non ne sono sicura". Ho risposto.
"Neanche io, Esther. Finalmente. Di nuovo" e ha sorriso.




3 comments:

chia said...

1. You're nothing but a pair of scrubs to me! (scusa ma non potevo farne a meno) :)

2. Io vorrei solo sapere lui come si chiamava. Per lei. Perché tra un po' penserà che non è mai stato vero. Il nome servirà.

3. Clap.

Intweetion said...

1. -2... Mandy Moore incinta. Cioè. E Elliot più isterica del solito. Tutte le carte in regola per chiudere in bellezza.

2. Lui è sparito. TrePerTre. Puf.

3. Arrosso.

Anonymous said...

ma bello.